Etimologicamente
il termine “vacanza” deriva da “vacuum”, cioè spazio vuoto, libero.
Tuttavia questo diventa un significato riduttivo del termine se si da per
scontato che l’estate debba essere un momento di completo estraniamento nei
confronti della realtà sociale in cui viviamo. L’associazione LIBERA, con i
6000 volontari che ogni anno si attivano nei suoi campi estivi di lavoro, la
pensa in modo diverso: il periodo estivo è un periodo libero dallo studio e dal
lavoro, ma non dall’impegno sociale.
Abbiamo
infatti trascorso sei intensi giorni a Castel Volturno, in Campania, nel campo
di lavoro Le terre di don Peppe Diana,
intitolato al parroco ucciso dalla camorra a Casal di Principe il 19 marzo
1994. Qualche anno fa, grazie all’’impegno di Libera Terra e di un gruppo di
soci volontari, la proprietà è stata inserita in un progetto di riutilizzo di
beni confiscati alla mafia, in questo caso al boss Michele Zaza. Il 17 maggio
2012, alla presenza delle autorità locali e del presidente di LIBERA don Luigi
Ciotti, all’interno del campo è stato inaugurato un caseificio gestito da
cinque giovani: Massimo Rocco, Teodosio Pirone, Mario Minieri,
Roberto Fiorillo ed Enrico Massimilla. Il pezzo forte della loro
produzione? Le mozzarelle di bufala della
legalità. Qui le nostre mani sono servite quanto il nostro pensiero, perché
questa terra, nascosta da un aspetto aspro e spaccato dal calore, gratifica con
la fertilità le dita che si immergono in lei, che si sporcano di lei. Nei
luoghi dove i campi vengono bruciati per minaccia o per mandare la verità in
cenere, il lavoro non è solo una protesi delle belle parole, ma è l’unica base
reale per ridare forma, volto e operosità. La pulizia delle selvatiche, ma
meravigliose baie circostanti era uno dei nostri compiti come volontari. La
sfrenata ricerca di appalti e di affari ha raggiunto anche il mare: in queste
spiagge l’immondizia stratificata e fossilizzata, proveniente dagli
stabilimenti balneari, ha preso il posto della sabbia fine e scura. Prima di
partire, ci era stato ricordato di portare un paio di guanti da lavoro e scarpe
resistenti: di fronte ai cumuli informi di sporcizia di ogni tipo, capisco il
perché. Persino con l’aiuto di pale e rastrelli è stato difficoltoso riuscire
ad estrarre anche solamente la metà dei rifiuti abbandonati. Plastica, rottami,
pezzi di elettrodomestici, frammenti di vetro e molto altro, nascosto dalle
sterpaglie, ma in quantità tali da non poter essere ignorato. Non tutta
l’immondizia era inorganica: proprio all’entrata di uno degli stabilimenti, il
cadavere di un cane, ormai guastato dal calore, completava il quadro inquietante,
fino a che noi non ci siamo preoccupati di seppellirlo. Sui muri che circondano
il bene dove eravamo ospitati, c’è scritta una frase di don Peppe Diana: Per amore del mio popolo, non tacerò, ma
è stato difficile trovare le parole giuste quando alcuni cittadini ci hanno
scrutato con sufficienza, per poi commentare: “ ‘sti polentoni, vogliono
raccogliere la nostra merda”. L’amaro in bocca rendeva difficile anche pensare.
Ma
forse l’esperienza più gratificante dell’intera settimana è stata l’attività nel
caseificio. Infatti, se la pulizia delle spiagge era un’attività sul
territorio, svolta in appoggio ad altri gruppi di volontariato attivi
nell’area, la produzione della mozzarella è stato il momento in cui si è
davvero lavorato nel bene confiscato alla camorra, producendo qualcosa di
positivo in una località prima inutilizzata dalla società civile. Il lavoro per
fare la mozzarella e la ricotta viene svolto generalmente di notte, per avere
il mattino dopo il prodotto pronto per la distribuzione sul mercato. Si inizia
a lavorare alle 9 di sera per finire alle 4 del mattino, in un ambiente
umidissimo a causa del vapore che si libera nei vari passaggi della
lavorazione. L’attenzione non può mai venire meno: se si sbagliasse il calcolo
del pH del liquido di governo (il liquido che contiene la mozzarella nelle
confezioni) o nel calcolo della salinità del caglio, il gusto del prodotto
verrebbe irrimediabilmente compromesso e lo stesso rischierebbe di marcire in
un solo giorno.
Non
si pensi che gli attuali casari delle Terre
di don Peppe Diana sognassero fin da bambini di produrre mozzarelle in un
terreno confiscato alla mafia. Esemplare è la vicenda di Massimo Rocco,
presidente della cooperativa sociale: diplomato presso l’Accademia del Cinema a
Roma, aiuto-regista in alcune produzioni di Cinecittà, stanco di un’ambiente
troppo lontano dai suoi desideri, ritorna nella sua città di origine, Caserta,
e decide di attivarsi per la sua regione. Impara il lavoro del casaro e accetta
di guadagnare pochissimo, a fronte di un impegno continuo con il quale rischia
la vita. La scelta era tra il continuare a vivere nel silenzio o prendere
coscienza dell’importanza del lavoro e delle risorse offerte da una terra
curata e rispettata.