[...] To realize the relative validity of one’s convictions and yet stand for them unflinchingly is what distinguishes a civilized man from a barbarian.

–Joseph Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy

giovedì 20 dicembre 2012

Occupazione. Autogestione. E poi?

Finito anche per l’anno 2012 l’autunno caldo penso sia ormai necessario fare qualche riflessione su come si sia svolto e su che conseguenze abbia portato soprattutto nella nostra realtà scolastica. Il fatto che è, ovviamente, emblema di tutte queste nostre agitazioni a livello d’Istituto, è stata l’occupazione-autogestione che ha avuto luogo dal pomeriggio del giorno 4 alla sera del giorno 7 dicembre.
Lasciando da parte la discussione, ormai inaridita su posizioni contrapposte ed inconciliabili, sull’utilità o meno dell’occupazione (il mio parere è contrario, ma penso che servirebbe un altro articolo per spiegare le motivazioni), non si può negare che in questo caso abbiamo dato il via ad una bella autogestione. Non si sono verificati troppi problemi di ordine interno (eccetto il caso del furto delle casse audio ad opera di alcuni esterni, subito controllato anche se con il triste, ma necessario, intervento delle forze di Polizia), ed è stato organizzato un interessante programma di incontri, che ha portato nella nostra Aula Magna quasi tutti i candidati sindaci alle prossime amministrative ed anche un sindacalista di fama nazionale come Giorgio Cremaschi.
Tuttavia è secondo me necessario dividere due aspetti fondamentali: quello emozionale ed attivista e quello puramente razionale e probabilmente anche più difficile da analizzare durante il susseguirsi delle vicende.
Dal primo punto di vista, come già detto, la nostra autogestione (di tutti gli studenti e di tutti i caliniani, sia di quelli che sono stati in classe, sia di quelli che hanno dormito a scuola la notte) è stata un successo quasi totale: i corsi sono stati molto ben organizzati, la partecipazione agli stessi ed alle varie assemblee è stata più che discreta e nelle strutture della scuola, a differenza degli anni scorsi, non sono stati riscontrati danni. Un vero successo quindi, che grazie al lavoro di molti ragazzi, sul cui attivismo ha forse influito anche un quinquennio di azione studentesca all’interno dell’istituto ridimensionata da una forte presidenza, ha portato a compimento il nostro obiettivo di informare parte del Calini su alcune procedure legislative che nei prossimi anni rischiano di modificare per sempre il volto della nostra Scuola ed il nostro rapporto con essa.
Ma qui entra in gioco l’aspetto forse più nascosto di questa agitazione ma, secondo me, necessario ad una riflessione approfondita: fare due giorni di occupazione era quello che si voleva o è stato un compromesso preso alla cieca e forse non rispettante quello che davvero si cercava?
Lasciando da parte tutte le discussioni sulla politica del contenimento del danno messa in atto dalla presidenza (che poi si è macchiata della colpa di far uscire le circolari in ritardo: svista o mancata presa di responsabilità di fronte ad una situazione comunque rischiosa?1), sulle quali si dovrà confrontare il corpo docenti, credo che sia sull’accettazione dell’autogestione che la nostra analisi è venuta meno, forse presa in errore di fronte a prospettive usualmente negate come l’autogestione e, in seguito, dinnanzi alla buona riuscita della stessa: cosa abbiamo ottenuto davvero?
Cosa resterà negli statuti, nel POF, nel regolamento d’Istituto dopo questa nostra protesta?
Abbiamo informato? Sì, certo, ma solo quelli che erano già per loro indole interessati a farlo, dato che coloro che volevano sono comunque rimasti in classe, forse ancora più seccati e testardi nelle loro opinioni. Abbiamo mostrato la forza degli studenti? Sì, a costo di accuse fra compagni di classe di essere crumiri, a costo del compromesso “entro quest’ora con la profe che mi segna assente ed esco quella dopo” e dei metodi per saltare le verifiche. Abbiamo ottenuto l’attenzione dei professori? Sì, quelli che hanno condiviso la nostra lotta hanno anche pubblicato una lettera sul Bresciaoggi2, ma sono meno di un decimo del numero totale dei docenti e sicuramente ci avrebbero sostenuto anche con altre forme di protesta. Abbiamo costruito qualcosa che resterà? Questo purtroppo no: abbiamo “fatto”, ma non abbiamo “costruito” niente…
Se la legge Aprea-Ghizzoni dovesse passare non saremmo riusciti a costruire nessuna linea di confine, nessuna barricata sulla quale potremmo fermarci e dire: “Questo al Calini no!”; “La rappresentanza degli studenti al Calini rimarrà intatta” o “Nonostante i tagli non ci toglierete le attività ex-DPR 133!”. E pensare che ci avremmo potuto provare! Avevamo i numeri e la forza per provare a fare qualche richiesta alla dirigenza che non fosse la semplice pretesa di due giorni di autogestione ma fosse una certezza per il futuro: difficile da mettere sulla carta forse, in modi e metodi da studiare, ma di sicuro ancora più difficile da togliere e molto più coerente con la nostra protesta.
Perché non si è tentato nonostante gli inviti in questo senso? Magari perché per molti (non per tutti ovviamente) è più facile impegnarsi sapendo che per due giorni non si hanno interrogazioni e verifiche invece di lavorare con il rischio di ritornare in classe se le richieste sarebbero state accettate?
Infine non posso non sottolineare come la nostra autogestione si sia svolta sulla falsariga dei Dies Fasti (come all’Arnaldo si è svolta sui modelli del loro Schola Ludens) e di come ciò credo possa condurci a fare una riflessione su come questi aspetti della nostra vita scolastica, un tempo quasi rivoluzionari ed oggi regolati e programmati dal POF, ci condizionino e si configurano ai nostri occhi come stereotipi di vere riappropriazioni della scuola.
Ma allora perché, nonostante ciò, quando si deve davvero decidere il titolo ed il programma dei Dies Fasti tutte le centinaia di ragazzi che votano “occupazione” ed “autogestione” si riducono, materialmente, alle solite quattro persone? Ci saranno di sicuro problemi di comunicazione, e tutto quello che si vuole, ma che senso può avere rincorrere “magnifiche sorti e progressive” senza che venga effettuato una vera e forte riappropriazione delle forme già esistenti e che ci dimentichiamo di frequentare considerandole erroneamente “vecchie” e “noiose”?
Non è forse il caso di tentare un’occupazione metaforica  e democratica dei contenitori che la scuola ci offre e che sono stati anche ottenuti dagli studenti nel corso degli anni per esprimere i nostri pareri ed i nostri disagi piuttosto che un’occupazione fisica ed autoritaria della scuola stessa? Non ci si renderebbe più credibili in questo modo? Non si potrebbe costruire qualcosa di condiviso e duraturo?
E questa non vuole essere una provocazione rivolta a coloro che negli anni prossimi si troveranno ancora in situazioni critiche di protesta, ma un invito rivolto a tutti noi, che ogni giorno viviamo la Scuola e la costruiamo, nel bene e nel male, con i nostri comportamenti ed il nostro interesse.
La Democrazia e le Istituzioni si plasmano ogni giorno, non solo le prime settimane di dicembre.


marco castelli


1: Nel caso qualcuno si fosse fatto male, senza una ben precisa circolare della dirigenza, la colpa sarebbe stata del docente che aveva permesso allo studente di non stare in classe. Con una circolare che permetteva e spiegava le forme dell’autogestione, la colpa sarebbe stata invece del preside.



martedì 27 novembre 2012

Risultati elezioni del Consiglio d'Istituto

GRAZIE A TUTTI COLORO CHE MI HANNO AIUTATO
NEL RAGGIUNGERE QUESTO RISULTATO!

CONTINUERO' CON TUTTO IL MIO IMPEGNO
PER  UN CALINI APERTO E DI TUTTI

marco


domenica 25 novembre 2012

Distacco - racconto secondo classificato al premio Dies Fasti 2012


Distacco

Albeggiava, secondo l’orologio in metallo nero posto sulla colonna in centro alla stanza spoglia. Albeggiava come tutte le mattine prima e, forse, anche dopo, se ci fosse stato qualcuno capace di rendersene conto. Era così ogni risveglio: sentivano il ritmico rumore gracchiante della sveglia, si alzavano, si vestivano e si guardavano. Ma non era stato sempre così: prima piangevano anche, nel capire che avrebbero avuto davanti un altro giorno, solo che ora, probabilmente, i loro occhi erano troppo stanchi anche per liberarsi dalle lacrime.
Oppure era la malattia che non glielo permetteva più. Era strano, perché parlavano di tutto tranne che della malattia. Il passato sembrava rivivere nelle loro lente, allenate, automatiche conversazioni, ma il morbo non vi compariva mai. Era strano perché era per quello che la coppia si trovava lì. Non si sa molto di loro, e nemmeno quei due, forse, sapevano ormai molto su loro stessi. Si sa solo che avevano subito il bacio di quella sconosciuta sindrome. Avevano sentito il proprio corpo ribellarsi contro sé stesso e contro loro stessi. Peggio della follia. Finché è la mente che ti tradisce, si può ipotizzare che tu non te ne accorga, ma quando, all’improvviso, il corpo ti viene meno, quello stesso corpo che ti faceva camminare la mattina per andare al lavoro, provare i vestiti e giocare a pallone coi figli, e quando quelle mani con le quali scrivevi, guidavi, suonavi la chitarra sono ammutolite, non puoi non sentire quel brivido ancestrale da bestia braccata, ferita, in pericolo, già carcassa per iene.
Probabilmente avevano sentito insieme lo schiaffo che il mondo impaurito dava loro come ultima sentenza medica, come una carezza resa ancora più dolce dal senso civile che il mondo dava a quel loro esilio. Forse l’ultima carezza che avevano sentito.
Era da tempo che ormai erano lì. Loro, per primi, in un bunker, sotterrati mentre la malattia fuori, probabilmente, stava cominciando a prendersi la loro indesiderata vendetta.
Il più intraprendente dei due aveva provato ad accendere una piccola radio che gli era stata data in dotazione al momento dell’esilio, ma con un movimento errato l’aveva subito rotta. E mentre loro appassivano il mondo fuori era, come in uno strano esperimento fisico, sommerso o salvato allo stesso tempo.
Era stato facile rompere quella piccola radio da parte dell’intraprendente. Ci avrebbe dovuto pensare, avrebbe dovuto ascoltare i consigli dell’altro reietto. Ascoltare anche il suo corpo muto, che non gli dava nessuna informazione.
Era quella la loro lenta maledizione: essere senza tatto. “Alla fine il tatto è un senso inutile”, si erano detti in principio. Era il resto che li aveva spaventati fin dall’inizio, quel cancro che appiccicava loro addosso una data di scadenza come alle scatolette di surgelati. E poi?
Ed il poi non c’era mai. O per lo meno non era ancora arrivato, sempre che quell’essere chiusi in attesa della fine non fosse, dopo tutto, un coma, una morte senza alcuno stato di decomposizione.
L’intraprendente aveva anche pensato, quando ormai stavano cominciando ad accumularsi negli angoli della stanza le piccole confezioni di cibo, simbolo tangibile dei giorni che si andavano ammassando gli uni sugli altri in quell’agonia, che si sarebbe potuto provare ad aprire una delle prese d’aria che davano sul mondo esterno. “Tanto - riteneva - i filtri saranno ormai scaduti, e non avranno più di sicuro alcuna utilità e funzione”. Era stato il cauto a doverlo trattenere, sostenendo che non era giusto fare così, che loro erano sempre un pericolo per la nazione. Ormai per loro era finita: non aveva senso mettere in pericolo altri per una loro brama infantile di vedere come proseguiva, se mai stesse proseguendo, la vita fuori, la vita vera. La discussione continuò ed i toni si accesero sempre più finché, all’improvviso, l’intraprendente si fermò. L’uomo sorrise, per un attimo lo sguardo sembrò tradire una congenita voglia di giocare, di scherzare, di perdersi nella propria disabilità con il sorriso, prima che la cappa degli anni non tornò a soffocarlo, a obbligarlo ad una supposta responsabilità verso la nazione. Si girò e chiuse l’apertura con violenza. Erano ora in piedi uno accanto all’altro. Il cauto, quando si stava ormai spegnendo il sottile soffio di un’apertura sigillata che torna a chiudersi, abbassò le palpebre, respirò, e cercò piano la mano al compagno. Provò semplicemente a ristringere quei legami umani che morivano ogni giorno nella paura e che solo quando ormai le paure non esistono più possono davvero umanamente ricongiungersi. L’intraprendente non reagì. Non se ne accorse. Ci volle qualche denso secondo di immobile attesa prima che lentamente, con la coda dell’occhio scorse quel gesto.
Sorrise. Pensò quantomeno di farlo, non sentendo alcuna risposta dalle sue labbra, non ricevendo alcuno stimolo dalla sua pelle muta. Provò a restituire il gesto, con scarso successo vista la difficoltà dei movimenti ormai disarticolati. Il cauto rispose quindi amaramente al sorriso dell’amico e ritornò a sdraiarsi, per dimenticarsi di un’altra giornata nel suo passato. ll suo volto non si mosse e, per volontà o per la sindrome, rotolò piano sulla sua gota una piccola lacrima. Si può pensare che la lacrima che gli spuntò dagli occhi fu solo un atto involontario dovuto all’avanzato stato della malattia o che fosse il fiore di un amore sbocciato senza il gusto ed il sapore propri dell’affetto, tagliato da un aratro incosciente. Come anche si può rinunciare a capire e, semplicemente, giocare a trovarvi dentro la propria immagine, riflettendocisi.
E si è dimenticato se il filo delle loro storie, del loro amore insensibile, sia stato tagliato prima dalle Parche o da un morbo cieco o da un’umanità ammalata.

giovedì 8 novembre 2012

Quocumque - racconto finalista nel concorso Subway Letteratura


Quocumque

Non si sa mai cosa si può trovare negli scantinati dei vecchi palazzi metropolitani. Di solito ombre e polvere. Scatoloni numerati  e scatole degli attrezzi arrugginite. E, tra i Ricordi e i Desideri, dei castelli di carte. Tanti castelli di tarocchi che mai videro la luce del sole e che mai nemmeno presero il nome di Sogni: sembrerebbero certezze, o meglio, Fantasie diventate certezze per consunzione della mente.
 Si racconta che ogni tanto capiti che una leggera brezza, entrata da una qualche finestra lasciata aperta, alzi un po’ di polvere e faccia cadere la torretta di queste fortezze: la cima dell’iceberg delle nostre troppo folli o eccessivamente razionali sicurezze, l’ultimo anello di queste nostre auto-imposte catene. Talvolta accade anche che la polvere sollevata prenda la forma di alcuni di questi tarocchi caduti, acquisendo l’immagine delle due carte, delle due figure, che formano la torre: e pertanto della carta uno del mazzo, lo scienziato, e della carta numero zero, che rappresenta il matto.
 Si trovarono così, anche in quel giorno di torrida afa metropolitana, a fronteggiarsi due numeri, due personaggi , due idee, due filosofie…due ombre quindi.
Il signore vestito bene tirò fuori un orologio a cipolla. Squadrò il compagno: «Abbiamo poco tempo» disse. L’altro, dai vestiti stracciati, sorridendo vacuo rispose: «No. Tu hai poco tempo. Io non considero il tempo: è sempre lo stesso. Io non cambio guardaroba con le stagioni. Non mi interesso quindi del tempo io.» «E si vede», ribatté il signore ben vestito in tono sprezzante, donando un secondo di commiserazione alla figura seduta in modo scomposto sul pavimento e chinandosi subito a disegnare delle linee parallele nella polvere del pavimento, sotto lo sguardo disinteressato dell’altra ombra. In breve tempo quelle righe, tracciate con gesti metodici e precisi, cominciarono a prendere la forma di una scacchiera, del campo di battaglia più violento al mondo. L’immagine del matto sembrava quasi non voler prendere parte a quello strano rito, come se ne fosse stata costretta dal Fato o Caso stesso: non da una sua precisa volontà. Solo quando dal panciotto l’ombra del savio tirò fuori i pezzi del gioco un breve sguardo gli cadde sugli sporchi riquadri del pavimento racchiusi fra le varie linee appena tracciate. Sospirò. «Dobbiamo davvero?» chiese, e vedendo il cenno d’assenso dell’altra ombra si mosse, tentando di risultare composto davanti alla scacchiera sulla quale avevano preso già posto tutte le pedine del gioco. Erano pedine bianche e nere, ma erano pedine strane, erano pedine con forme strane  e che rappresentavano personaggi diversi per i due contendenti, sempre che si potesse dire che possedevano un’immagine sola. Il bagatto cominciò facendo avanzare uno dei suoi bianchi pedoni. «Mi lanci la rivolta?» disse sorridendo. Il matto chiuse gli occhi e mosse una pedina a caso davanti a lui. I due giocatori in quella sporca cantina lo sapevano: da qualche parte del mondo si stava preparando una rivolta contro una violenta dittatura. Si era pronti allo scontro fra servi del potere e schiavi dell’idea. Lo immaginavano e ne prendevano atto giocando quella partita, rappresentando e guidando quei lontani destini. I pedoni si avvicinarono anche durante la mossa successiva: si fronteggiavano ora in una lontana piazza le due distanti fazioni. Il bianco mosse allora il cavallo al centro della scena, mentre il nero continuava a mandare avanti a caso i suoi pedoni, i suoi guerriglieri. Il cavallo sembrava nitrisse dalla sua posizione privilegiata nel cuore della partita. La sua essenza si poteva sentire nella brezza che entrava nella finestra: il suo esistere sia come camionetta che avanza tra i cassonetti bagnati di fuoco e l’odore aspro dei lacrimogeni, sia come professore che spiega appassionato le Categorie di Aristotele, nel torpore umido di un’Aula Magna alle prime ore dell’inverno. Come portando avanti un infantile tentativo d’imitazione, anche la carta numero zero fece avanzare la cavalleria: nell’ordinata aula universitaria un vecchio greco condannato per empietà stava spiegando le ragioni del relativismo personale e della maieutica. Seccato per questa interruzione, il professore lasciò la parola alla slanciata figura di un giovane tedesco, arrivato sotto forma di regina, che sognava l’ordine matematico, e la risoluzione degli ultimi problemi logici nella stessa: nei suoi occhi la Tour-Eiffel, nella sua testa un mondo ancora vergine della crudeltà umana. Nel frattempo, dirimpettai si squadravano un pallido Cicerone e, fiero nelle sue ombre, un giovane Catilina, che scrutavano il proseguire dello scontro dal centro delle rispettive schiere, e si meravigliavano della forza retorica del giovane tedesco, a cui però il giocatore nero rispose, sempre tentando di copiare le mosse dell’avversario, mostrandogli lo statico crollo dei suoi sogni con un giovane Gödel, ancora stupefatto per la sua dimostrazione e per l’aver appena bloccato la regina avversaria esattamente come il cavallo bianco aveva prima rotto i sogni dei pedoni neri. I due romani guardavano con interesse la scena: sicuramente non capivano le raffinate argomentazioni logiche che rilucevano nell’aula universitaria o gli slogan che si vomitavano nella lontana piazza. Ma avevano forse capito il significato di quel gioco, e questo gli bastava. Non era una partita che aveva un senso, come la vita scorreva e appassiva nei momenti di piena e di secca del fiume personale delle emozioni: quel gioco era semplicemente la rappresentazione esemplare del pòlemos che sembra guidare ogni azione umana, quell’essenza di accogliente nonsense e di fredda razionalità propria della stessa esistenza umana, propria degli uomini, propria degli esseri che più di ogni altro sono pronti a sognare ed annichilirsi allo stesso momento.
La sfida rotolò avanti quasi per inerzia, come seguendo un copione che durante le varie riprese vede solo cambiare gli attori ma mai le battute. Non ci volle molto comunque ed impalpabili scommettitori avrebbero avuto vita molto facile dinnanzi ad una partita del genere…
«Scacco matto», declamò infatti dopo poco tempo una voce calma e profonda. Silenzio. Il matto rise: «Ho vinto quindi?» «No idiota. Hai perso. – ribatté il bagatto -  Hai perso come ieri e come l’altro ieri. Hai perso come sempre. Siamo ancora uno a zero per me, prima di ricominciare la stessa partita e dimenticarci questo punteggio come i mille precedenti.» «Uno a zero hai detto?» domandò il perdente, che dopo un rapido gesto d’assenso dell’altra figura continuò: «Hai notato? Sono come i nostri numeri…sì…i nostri numeri, le nostre essenze: io, zero, tu, uno…» «Sì, bene. E cosa cambia. Dai, smettila di guardarti intorno e aiutami a ridisegnare la scacchiera, essere inutile.» «Senza  zero, senza di me, non lo fai mica però l’alfabeto dei computer…la cosa tua, quella cosa matematica, importante, ne ho sentito dire…» tentò, con un moto d’orgoglio l’ombra.  «Il codice binario vorresti farmi intendere? – sorrise l’azzimato signore - Ma cosa c’entra? Lo sai, te l’ho già detto: il tuo unico scopo è essere il mio compagno di giochi. È farmi divertire… è inchinarti dinnanzi alla mia mente. La tua utilità è mettere le tue illusioni, i tuoi sogni, le tue ideologie, e sì, i tuoi castelli di carte davanti a me: a me, non illusionista, mago, a me, non sognatore, politico, a me, non idealista, venduto. Io sono il fumo di macchina a vapore pronto a far crollare i tuoi castelli di carte. E il bello è che lo sai anche tu. Ma non puoi capirlo. Non hai la capacità per capirlo.» Ci fu una lunga pausa prima che l’ombra dai vestiti sgualciti smise di fissare con interesse uno scatolone e si decise a rispondere: «Ma noi qui stiamo insieme…dovunque siamo insieme!» «Sì, hai ragione effettivamente. –disse pensoso la figura ben vestita- Solo raramente stiamo separati. Dovunque siamo, nel contrasto, uniti. Ma cosa vuol dire ciò, se non che sei il mio giullare? Avevi ricordato i numeri no? Io uno e tu zero, vero? Ti sei mai chiesto cosa faccia uno più zero, pezzente? Fa uno mio caro. Fa uno. Vinco io. Sempre.» La leggera corrente che attraversava la stanza e permetteva questo curioso teatrino stava cominciando ad affievolirsi, come se sapesse che il tempo della rappresentazione stava finendo, che il suo lieve soffio era richiesto per far sollevare un qualche lontano Livingstone da una qualsiasi sperduta scogliera. Tuttavia era strano come la figura del folle perdesse una consistente quantità di polvere dal viso: il venticello avrebbe dovuto ancora reggere il suo caduco corpo. Sembrava quasi che stesse piangendo. «Ma non siamo solo noi vero? Noi siamo tanti Noi. Noi siamo qua e là, noi siamo giù e su, vero? Ma noi siamo…vero?» riprese lamentosa la figura perdente. «No, noi non siamo. Ma sì, noi siamo dovunque. Direi quasi che ci stiamo moltiplicando negli ultimi tempi. Che queste nostre partite stiano diventando sempre più frequenti…», ribatté seccato l’altro. «Moltiplicato…cosa vuol dire?» insistette l’ombra del matto. «È un’operazione, come la somma di prima, stupido. Celere che dobbiamo ricominciare!» rispose veloce la carta del bagatto, cominciando a raccogliere i suoi pedoni.  «Solo un attimo. Un ultimo attimo. Hai detto che siamo moltiplicati. E cosa facciamo noi moltiplicati? Cosa facciamo?» Ci fu un secondo di silenzio prima che il numero uno scoppiò in una fragorosa risata. «Di quanto vinci tu,-insistette l’ombra che, forse a causa del pianto, stava già diventando più evanescente-  se siamo moltiplicati? Dai! È la mia ultima problema! Dai! Perché ridi?» Questa domanda si spense nel riso sempre più convulso del bagatto, che da risata divenne rumore, da  rumore, sottofondo, da sottofondo, sussurro, e da sussurro si disperse nell’ultimo alito di vento che fuggì da quella cantina.
Nessuno entrò in quel luogo per parecchi giorni. Solo un bambino, alla ricerca di nuove grotte e nuovi draghi da affrontare, vi si recò. Sulle orme del terribile Fiammadoro, non si curò molto del piccolo re da scacchiera rimasto a terra che schiacciò con un piede. Lo allontanò semplicemente con un calcio, subito dimenticandolo, preso dalle sue importanti incombenze.
Non saprebbe dirci di che colore era.


marco castelli



mercoledì 10 ottobre 2012

Estate Liberi! - agosto nelle Terre di don Peppe Diana



Etimologicamente il termine “vacanza” deriva da “vacuum”, cioè spazio vuoto, libero. Tuttavia questo diventa un significato riduttivo del termine se si da per scontato che l’estate debba essere un momento di completo estraniamento nei confronti della realtà sociale in cui viviamo. L’associazione LIBERA, con i 6000 volontari che ogni anno si attivano nei suoi campi estivi di lavoro, la pensa in modo diverso: il periodo estivo è un periodo libero dallo studio e dal lavoro, ma non dall’impegno sociale.
Abbiamo infatti trascorso sei intensi giorni a Castel Volturno, in Campania, nel campo di lavoro Le terre di don Peppe Diana, intitolato al parroco ucciso dalla camorra a Casal di Principe il 19 marzo 1994. Qualche anno fa, grazie all’’impegno di Libera Terra e di un gruppo di soci volontari, la proprietà è stata inserita in un progetto di riutilizzo di beni confiscati alla mafia, in questo caso al boss Michele Zaza. Il 17 maggio 2012, alla presenza delle autorità locali e del presidente di LIBERA don Luigi Ciotti, all’interno del campo è stato inaugurato un caseificio gestito da cinque giovani:  Massimo Rocco, Teodosio Pirone, Mario Minieri, Roberto Fiorillo ed Enrico Massimilla. Il pezzo forte della loro produzione? Le mozzarelle di bufala della legalità. Qui le nostre mani sono servite quanto il nostro pensiero, perché questa terra, nascosta da un aspetto aspro e spaccato dal calore, gratifica con la fertilità le dita che si immergono in lei, che si sporcano di lei. Nei luoghi dove i campi vengono bruciati per minaccia o per mandare la verità in cenere, il lavoro non è solo una protesi delle belle parole, ma è l’unica base reale per ridare forma, volto e operosità. La pulizia delle selvatiche, ma meravigliose baie circostanti era uno dei nostri compiti come volontari. La sfrenata ricerca di appalti e di affari ha raggiunto anche il mare: in queste spiagge l’immondizia stratificata e fossilizzata, proveniente dagli stabilimenti balneari, ha preso il posto della sabbia fine e scura. Prima di partire, ci era stato ricordato di portare un paio di guanti da lavoro e scarpe resistenti: di fronte ai cumuli informi di sporcizia di ogni tipo, capisco il perché. Persino con l’aiuto di pale e rastrelli è stato difficoltoso riuscire ad estrarre anche solamente la metà dei rifiuti abbandonati. Plastica, rottami, pezzi di elettrodomestici, frammenti di vetro e molto altro, nascosto dalle sterpaglie, ma in quantità tali da non poter essere ignorato. Non tutta l’immondizia era inorganica: proprio all’entrata di uno degli stabilimenti, il cadavere di un cane, ormai guastato dal calore, completava il quadro inquietante, fino a che noi non ci siamo preoccupati di seppellirlo. Sui muri che circondano il bene dove eravamo ospitati, c’è scritta una frase di don Peppe Diana: Per amore del mio popolo, non tacerò, ma è stato difficile trovare le parole giuste quando alcuni cittadini ci hanno scrutato con sufficienza, per poi commentare: “ ‘sti polentoni, vogliono raccogliere la nostra merda”. L’amaro in bocca rendeva difficile anche pensare.
Ma forse l’esperienza più gratificante dell’intera settimana è stata l’attività nel caseificio. Infatti, se la pulizia delle spiagge era un’attività sul territorio, svolta in appoggio ad altri gruppi di volontariato attivi nell’area, la produzione della mozzarella è stato il momento in cui si è davvero lavorato nel bene confiscato alla camorra, producendo qualcosa di positivo in una località prima inutilizzata dalla società civile. Il lavoro per fare la mozzarella e la ricotta viene svolto generalmente di notte, per avere il mattino dopo il prodotto pronto per la distribuzione sul mercato. Si inizia a lavorare alle 9 di sera per finire alle 4 del mattino, in un ambiente umidissimo a causa del vapore che si libera nei vari passaggi della lavorazione. L’attenzione non può mai venire meno: se si sbagliasse il calcolo del pH del liquido di governo (il liquido che contiene la mozzarella nelle confezioni) o nel calcolo della salinità del caglio, il gusto del prodotto verrebbe irrimediabilmente compromesso e lo stesso rischierebbe di marcire in un solo giorno.
Non si pensi che gli attuali casari delle Terre di don Peppe Diana sognassero fin da bambini di produrre mozzarelle in un terreno confiscato alla mafia. Esemplare è la vicenda di Massimo Rocco, presidente della cooperativa sociale: diplomato presso l’Accademia del Cinema a Roma, aiuto-regista in alcune produzioni di Cinecittà, stanco di un’ambiente troppo lontano dai suoi desideri, ritorna nella sua città di origine, Caserta, e decide di attivarsi per la sua regione. Impara il lavoro del casaro e accetta di guadagnare pochissimo, a fronte di un impegno continuo con il quale rischia la vita. La scelta era tra il continuare a vivere nel silenzio o prendere coscienza dell’importanza del lavoro e delle risorse offerte da una terra curata e rispettata.

 Martina Melgazzi e Marco Castelli