[...] To realize the relative validity of one’s convictions and yet stand for them unflinchingly is what distinguishes a civilized man from a barbarian.

–Joseph Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy

domenica 25 novembre 2012

Distacco - racconto secondo classificato al premio Dies Fasti 2012


Distacco

Albeggiava, secondo l’orologio in metallo nero posto sulla colonna in centro alla stanza spoglia. Albeggiava come tutte le mattine prima e, forse, anche dopo, se ci fosse stato qualcuno capace di rendersene conto. Era così ogni risveglio: sentivano il ritmico rumore gracchiante della sveglia, si alzavano, si vestivano e si guardavano. Ma non era stato sempre così: prima piangevano anche, nel capire che avrebbero avuto davanti un altro giorno, solo che ora, probabilmente, i loro occhi erano troppo stanchi anche per liberarsi dalle lacrime.
Oppure era la malattia che non glielo permetteva più. Era strano, perché parlavano di tutto tranne che della malattia. Il passato sembrava rivivere nelle loro lente, allenate, automatiche conversazioni, ma il morbo non vi compariva mai. Era strano perché era per quello che la coppia si trovava lì. Non si sa molto di loro, e nemmeno quei due, forse, sapevano ormai molto su loro stessi. Si sa solo che avevano subito il bacio di quella sconosciuta sindrome. Avevano sentito il proprio corpo ribellarsi contro sé stesso e contro loro stessi. Peggio della follia. Finché è la mente che ti tradisce, si può ipotizzare che tu non te ne accorga, ma quando, all’improvviso, il corpo ti viene meno, quello stesso corpo che ti faceva camminare la mattina per andare al lavoro, provare i vestiti e giocare a pallone coi figli, e quando quelle mani con le quali scrivevi, guidavi, suonavi la chitarra sono ammutolite, non puoi non sentire quel brivido ancestrale da bestia braccata, ferita, in pericolo, già carcassa per iene.
Probabilmente avevano sentito insieme lo schiaffo che il mondo impaurito dava loro come ultima sentenza medica, come una carezza resa ancora più dolce dal senso civile che il mondo dava a quel loro esilio. Forse l’ultima carezza che avevano sentito.
Era da tempo che ormai erano lì. Loro, per primi, in un bunker, sotterrati mentre la malattia fuori, probabilmente, stava cominciando a prendersi la loro indesiderata vendetta.
Il più intraprendente dei due aveva provato ad accendere una piccola radio che gli era stata data in dotazione al momento dell’esilio, ma con un movimento errato l’aveva subito rotta. E mentre loro appassivano il mondo fuori era, come in uno strano esperimento fisico, sommerso o salvato allo stesso tempo.
Era stato facile rompere quella piccola radio da parte dell’intraprendente. Ci avrebbe dovuto pensare, avrebbe dovuto ascoltare i consigli dell’altro reietto. Ascoltare anche il suo corpo muto, che non gli dava nessuna informazione.
Era quella la loro lenta maledizione: essere senza tatto. “Alla fine il tatto è un senso inutile”, si erano detti in principio. Era il resto che li aveva spaventati fin dall’inizio, quel cancro che appiccicava loro addosso una data di scadenza come alle scatolette di surgelati. E poi?
Ed il poi non c’era mai. O per lo meno non era ancora arrivato, sempre che quell’essere chiusi in attesa della fine non fosse, dopo tutto, un coma, una morte senza alcuno stato di decomposizione.
L’intraprendente aveva anche pensato, quando ormai stavano cominciando ad accumularsi negli angoli della stanza le piccole confezioni di cibo, simbolo tangibile dei giorni che si andavano ammassando gli uni sugli altri in quell’agonia, che si sarebbe potuto provare ad aprire una delle prese d’aria che davano sul mondo esterno. “Tanto - riteneva - i filtri saranno ormai scaduti, e non avranno più di sicuro alcuna utilità e funzione”. Era stato il cauto a doverlo trattenere, sostenendo che non era giusto fare così, che loro erano sempre un pericolo per la nazione. Ormai per loro era finita: non aveva senso mettere in pericolo altri per una loro brama infantile di vedere come proseguiva, se mai stesse proseguendo, la vita fuori, la vita vera. La discussione continuò ed i toni si accesero sempre più finché, all’improvviso, l’intraprendente si fermò. L’uomo sorrise, per un attimo lo sguardo sembrò tradire una congenita voglia di giocare, di scherzare, di perdersi nella propria disabilità con il sorriso, prima che la cappa degli anni non tornò a soffocarlo, a obbligarlo ad una supposta responsabilità verso la nazione. Si girò e chiuse l’apertura con violenza. Erano ora in piedi uno accanto all’altro. Il cauto, quando si stava ormai spegnendo il sottile soffio di un’apertura sigillata che torna a chiudersi, abbassò le palpebre, respirò, e cercò piano la mano al compagno. Provò semplicemente a ristringere quei legami umani che morivano ogni giorno nella paura e che solo quando ormai le paure non esistono più possono davvero umanamente ricongiungersi. L’intraprendente non reagì. Non se ne accorse. Ci volle qualche denso secondo di immobile attesa prima che lentamente, con la coda dell’occhio scorse quel gesto.
Sorrise. Pensò quantomeno di farlo, non sentendo alcuna risposta dalle sue labbra, non ricevendo alcuno stimolo dalla sua pelle muta. Provò a restituire il gesto, con scarso successo vista la difficoltà dei movimenti ormai disarticolati. Il cauto rispose quindi amaramente al sorriso dell’amico e ritornò a sdraiarsi, per dimenticarsi di un’altra giornata nel suo passato. ll suo volto non si mosse e, per volontà o per la sindrome, rotolò piano sulla sua gota una piccola lacrima. Si può pensare che la lacrima che gli spuntò dagli occhi fu solo un atto involontario dovuto all’avanzato stato della malattia o che fosse il fiore di un amore sbocciato senza il gusto ed il sapore propri dell’affetto, tagliato da un aratro incosciente. Come anche si può rinunciare a capire e, semplicemente, giocare a trovarvi dentro la propria immagine, riflettendocisi.
E si è dimenticato se il filo delle loro storie, del loro amore insensibile, sia stato tagliato prima dalle Parche o da un morbo cieco o da un’umanità ammalata.