Distacco
Albeggiava, secondo l’orologio in metallo nero posto
sulla colonna in centro alla stanza spoglia. Albeggiava come tutte le mattine
prima e, forse, anche dopo, se ci fosse stato qualcuno capace di rendersene
conto. Era così ogni risveglio: sentivano il ritmico rumore gracchiante della
sveglia, si alzavano, si vestivano e si guardavano. Ma
non era stato sempre così: prima piangevano anche, nel capire che avrebbero
avuto davanti un altro giorno, solo che ora, probabilmente, i loro occhi erano
troppo stanchi anche per liberarsi dalle lacrime.
Oppure era la malattia che non glielo permetteva più. Era
strano, perché parlavano di tutto tranne che della malattia. Il passato
sembrava rivivere nelle loro lente, allenate, automatiche conversazioni, ma il
morbo non vi compariva mai. Era strano perché era per quello che la coppia si
trovava lì. Non si sa molto di loro, e nemmeno quei due, forse, sapevano ormai
molto su loro stessi. Si sa solo che avevano subito il bacio di quella
sconosciuta sindrome. Avevano sentito il proprio corpo ribellarsi contro sé
stesso e contro loro stessi. Peggio della follia. Finché
è la mente che ti tradisce, si può ipotizzare che tu non te ne accorga, ma quando,
all’improvviso, il corpo ti viene meno, quello stesso corpo che ti faceva
camminare la mattina per andare al lavoro, provare i vestiti e giocare a
pallone coi figli, e quando quelle mani con le quali scrivevi, guidavi,
suonavi la chitarra sono ammutolite, non puoi non sentire quel brivido ancestrale
da bestia braccata, ferita, in pericolo, già carcassa per iene.
Probabilmente avevano sentito insieme lo schiaffo che il
mondo impaurito dava loro come ultima sentenza medica, come una carezza resa
ancora più dolce dal senso civile che il mondo dava a quel loro esilio. Forse l’ultima
carezza che avevano sentito.
Era da tempo che ormai erano lì. Loro, per primi, in un
bunker, sotterrati mentre la malattia fuori, probabilmente, stava cominciando a
prendersi la loro indesiderata vendetta.
Il più intraprendente dei due aveva provato ad accendere
una piccola radio che gli era stata data in dotazione al momento dell’esilio,
ma con un movimento errato l’aveva subito rotta. E mentre loro appassivano il
mondo fuori era, come in uno strano esperimento fisico, sommerso o salvato allo
stesso tempo.
Era stato facile rompere quella piccola radio da parte
dell’intraprendente. Ci avrebbe dovuto pensare, avrebbe dovuto ascoltare i
consigli dell’altro reietto. Ascoltare anche il suo corpo muto, che non gli
dava nessuna informazione.
Era quella la loro lenta maledizione: essere senza tatto.
“Alla fine il tatto è un senso inutile”, si erano detti in principio. Era il
resto che li aveva spaventati fin dall’inizio, quel cancro che appiccicava loro
addosso una data di scadenza come alle scatolette di surgelati. E poi?
Ed il poi non c’era mai. O per lo meno non era ancora
arrivato, sempre che quell’essere chiusi in attesa della fine non fosse, dopo
tutto, un coma, una morte senza alcuno stato di decomposizione.
L’intraprendente aveva anche
pensato, quando ormai stavano cominciando ad accumularsi negli angoli della
stanza le piccole confezioni di cibo, simbolo tangibile dei giorni che si
andavano ammassando gli uni sugli altri in quell’agonia, che si sarebbe potuto
provare ad aprire una delle prese d’aria che davano sul mondo esterno. “Tanto
- riteneva - i filtri saranno ormai scaduti, e non avranno più di sicuro alcuna
utilità e funzione”. Era stato il cauto a doverlo trattenere, sostenendo che
non era giusto fare così, che loro erano sempre un pericolo
per la nazione. Ormai per loro era finita: non aveva senso mettere in pericolo
altri per una loro brama infantile di vedere come proseguiva, se mai stesse
proseguendo, la vita fuori, la vita vera. La discussione continuò ed i
toni si accesero sempre più finché, all’improvviso, l’intraprendente si fermò.
L’uomo sorrise, per un attimo lo sguardo sembrò tradire una congenita voglia di
giocare, di scherzare, di perdersi nella propria disabilità con il sorriso,
prima che la cappa degli anni non tornò a soffocarlo, a obbligarlo ad una
supposta responsabilità verso la nazione. Si girò e chiuse l’apertura con
violenza. Erano ora in piedi uno accanto all’altro. Il cauto, quando si stava
ormai spegnendo il sottile soffio di un’apertura sigillata che torna a
chiudersi, abbassò le palpebre, respirò, e cercò piano la mano al compagno.
Provò semplicemente a ristringere quei legami umani che morivano ogni giorno
nella paura e che solo quando ormai le paure non esistono più possono davvero
umanamente ricongiungersi. L’intraprendente non reagì. Non se ne accorse. Ci
volle qualche denso secondo di immobile attesa prima che lentamente, con la
coda dell’occhio scorse quel gesto.
Sorrise. Pensò quantomeno di farlo, non sentendo alcuna
risposta dalle sue labbra, non ricevendo alcuno stimolo dalla sua pelle muta.
Provò a restituire il gesto, con scarso successo vista la difficoltà dei
movimenti ormai disarticolati. Il cauto rispose quindi amaramente al sorriso
dell’amico e ritornò a sdraiarsi, per dimenticarsi di un’altra giornata nel suo
passato. ll suo volto non si mosse e, per volontà o per la sindrome, rotolò
piano sulla sua gota una piccola lacrima. Si può pensare che la lacrima che gli
spuntò dagli occhi fu solo un atto involontario dovuto all’avanzato stato della
malattia o che fosse il fiore di un amore sbocciato senza il gusto ed il sapore
propri dell’affetto, tagliato da un aratro incosciente. Come anche si può
rinunciare a capire e, semplicemente, giocare a trovarvi dentro la propria
immagine, riflettendocisi.
E si è dimenticato se il filo delle loro storie, del loro
amore insensibile, sia stato tagliato prima dalle Parche o da un morbo cieco o
da un’umanità ammalata.
marco castelli
Link al testo dal sito del Liceo Calini: http://www.liceocalini.it/dies-fasti/dies-fasti-2012/vincitori-concorso-2012/II%20classificato.pdf/view