[...] To realize the relative validity of one’s convictions and yet stand for them unflinchingly is what distinguishes a civilized man from a barbarian.

–Joseph Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy

sabato 26 aprile 2014

Discorso a Roncadelle per il 25 aprile


Salve a tutti. Buona mattina! Buon 25 aprile!
sono davvero onorato di avere l’opportunità di essere qui con voi oggi e ringrazio di cuore le associazioni che, insieme al Comune di Roncadelle, anche quest’anno hanno organizzato questa commemorazione. In primis la sezione ANPI Peppino Impastato, della quale fa parte anche il presidente onorario dell’ANPI provinciale Cecco Pellacini, che tutti i giorni ed in particolare oggi dovremmo ringraziare per la sua scelta di settant’anni fa, e, per la prima volta, anche il Movimento Nonviolento di Brescia.
Nonviolenza e Resistenza quindi. Un binomio che, se inizialmente potrebbe sembrare quanto meno particolare è, in verità, forte di senso e di significati e di nuovi stimoli per l’oggi
.

Profondamente denso di nuovi significati per l’oggi in quanto la riflessione storica e storiografica non può mai considerarsi un’operazione avulsa dal proprio tempo. La Storia, come diceva Marc Bloch è, innanzitutto, un “luogo d’incontro degli uomini[1]” e quindi si configura come qualcosa di vivo, di fecondo, che offre sempre nuovi spunti e nuovi apporti. La storia risponde soprattutto alle domande che noi, la società del tempo, le poniamo. Ed oggi la società non pone più alla storia le stesse domande che le poteva porre sessanta o trenta anni fa

Negli anni seguenti la liberazione dal nazifascismo la domanda che la società poneva alla storia era una domanda di chiarezza. Era necessario capire chi erano stati i partigiani e chi no, per sapere a chi applicare alcuni provvedimenti e per capire come raccogliere i cocci del paese che fino a qualche mese prima dell’aprile 1945 era diviso in più stati, in più regioni, in più zone di operazione militari. Quante “Italie” sono esistite in quei mesi? C’era la zona di occupazione tedesca, la repubblica di Salò, le varie repubbliche partigiane[2], la zona di operazione militare alleata ed il governo del Regno d’Italia formato da uomini del CLN.
Era ovvio quindi che le prime preoccupazioni furono quelle di chiarezza. Di stabilire dei criteri tecnici, ed essendo tecnici anche opinabili, per definire le differenze tra partigiano, patriota e benemerito, non di elaborare una riflessione su cosa era stata la Resistenza nel suo complesso e quindi nella sua complessità.[3]
Le principali forze politiche che avevano composto i Comitati di Liberazione Nazionale prima e l’Assemblea Costituente poi, avevano inoltre ciascuna una diversa lettura della Lotta resistenziale. Avevano delle diverse immagini della Resistenza da portare avanti ma che non comprendevano l’elaborazione di ciò che è stata la ribellione antifascista e nonviolenta di base.
Se infatti il maggior partito di governo dell’inizio della nostra storia repubblicana, la Democrazia Cristiana, vedeva non positivamente un’interpretazione che potesse leggere la guerra di Resistenza come guerra di popolo, quasi una guerra rivoluzionaria nella quale oggettivamente le componenti di sinistra avevano svolto un ruolo preminente, avendo rappresentato circa il 70% dei partigiani combattenti, il principale partito d’opposizione, il Partito Comunista Italiano, sentiva principalmente la ferma necessità di far vedere come fosse legittimato a far parte del gioco democratico del paese, nonostante le sue posizioni di politica estera, e dava quindi maggior importanza al ricordo dei suoi martiri esemplari morti per la libertà, che a sottolineare la dimensione popolare dello scontro.

Della Resistenza pertanto si sono solitamente studiate e ricordate le battaglie, la guerriglia in montagna ed in città. Si rammentano quindi delle scene di guerra e di morte, che si collocano all’interno del grande scenario di guerra e di morte che è stata la seconda guerra mondiale.
Per via delle domande che sono state poste alla storia in quegli anni, le cui risposte sono oggi parte dei nostri libri di testo, le Resistenza viene vista come uno degli eserciti in lotta. Un esercito moralmente superiore agli altri. Un esercito formato dai cittadini italiani, dai partigiani, ma sempre e solo come un esercito.
Solo ponendo alla storia altre domande però si può vedere il forte nesso che corre fra nonviolenza civile e resistenza antifascista.
E cioè: cosa c’è stato prima di quella scelta? Come hanno fatto dei gruppi, tenuti insieme solo da grandi ideali ma senza sostegno logistico e materiale bellico, a fare venti mesi di guerriglia?

Sono le risposte a queste domande che danno la cifra di un più ampio movimento di Liberazione nazionale, composto da tanti uomini e donne che, nel momento del bisogno, sono stati in grado di assumersi la propria dose di responsabilità, dando pertanto una risposta alla situazione di barbarie che si trovavano a vivere. Solo a titolo di esempio di potrebbe fare riferimento a Gino Bartali che in silenzio, assumendosi i suoi rischi, si impegnò anche lui per la resistenza, trasportando messaggi in giro per l’Italia.
Queste risposte e questi esempi ovviamente non mettono sottotraccia la resistenza armata, che era inevitabile in un contesto di guerra totale come quello degli ultimi anni del conflitto mondiale, terminato con l’uso dell’arma atomica, una lotta che ci ha permesso di uscire in modo più dignitoso come Italia dal conflitto mondiale e che ha portato, come ammise lo stesso Churchill, ad una riduzione notevole dei tempi del secondo conflitto mondiale, ma è utile per aprire ed allargare il campo.

La scelta nonviolenta non è stata quindi una scelta contrapposta a quella della resistenza armata, ma ne è stata complementare. Simbiotica. Non ci sarebbe potuta essere l’una senza l’altra.

I partigiani non sono stati soli, ed oltre alle staffette c’erano intere famiglie ed interi villaggi che aiutavano le formazioni, ospitando in casa partigiani o anche solo comunicando ai combattenti con i metodi più vari il rischio di un rastrellamento[4].

Come diceva la partigiana Gioconda Paleotti, meglio nota come Joyce LussuLa formazione partigiana è tipicamente antimilitarista, sia per la sua struttura interna e la sua cultura che per il suo rapporto col territorio e la popolazione. È composta di civili che avversavano il militarismo e la guerra, e che prendono le armi perché è l’unico mezzo per fermare l’aggressore e non farsene complici rimanendo passivi… Chiunque sia stato partigiano sa tutto sulla difesa nonviolenta perché, prima di risolversi ad affrontare lo scontro armato… aveva già escogitato e attuato tutti i mezzi possibili di resistenza e di difesa che prescindano dall’uso delle armi. Lidia Menapace mi ricorda sempre[5], quando discutiamo di queste cose, che nella lotta partigiana a differenza della guerra “normale”, è pienamente riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza vale a dire a scegliere altri compiti e ruoli che non comportino la necessità di uccidere[6]
La Resistenza, da questa testimonianza, si configura quindi in una polifonia, una pluralità di forme di ruoli di compiti, con una ricchezza maggiore di figure e di immagini in cui potersi riconoscere, con più esempi da trasportare all’oggi.
Polifonia che si riscontra anche nei vari nomi che sono stati dati a questo tipo di esperienza, che sono cambiati, nel corso che l’approccio storiografico mutava, da “la resistenza passiva”, “l’altra resistenza”, a “la resistenza taciuta” o “l’oscura resistenza”, fino a vedersi riconosciuta una sua autonomia propositiva con le espressioni “resistenza nonviolenta” e “resistenza civile”.
Penso inoltre che un tale approccio permetta anche di superare l’idea di un popolo passivo, di una popolazione disorientata fra i due fuochi di una guerra che alcuni definiscono civile. Un popolo  che sembra indifferente alle sorti del paese attendendo che “tutto cambi affinché nulla cambi[7]”. Rivalutare la resistenza delle popolazioni, dei renitenti alla leva, dei deportati e degli internati militari serve anche quindi a togliere il dare nuova luce all’intera vicenda resistenziale, dandole finalmente anche nella storiografia la base comune a tutti che merita.

Riscoprire la nonviolenza della resistenza serve per dare memoria, ad esempio, a tutti coloro che decidevano di ospitare gli oppositori del nazifascismo nelle loro case, come fece, ad esempio, nel castello di Roncadelle, la famiglia Guaineri[8].  E questa non era una scelta neutra visto che poteva portare, nel caso ciò fosse stato scoperto, alla fucilazione di tutti i membri della famiglia o, in caso di denuncia, al premio di 5000 lire e 5 chili di sale secondo i diktat di Kesserling[9].
Serve per ricordare le staffette, che rischiavano la vita passando fra i tedeschi con lettere e munizioni rischiando la morte e la prigione, come fece, ad esempio,  Carmela Trainini[10] per Roncadelle. Staffetta della 122^ Garibaldi, incarcerata per mesi a Milano.
Serve per ricordare gli internati militari, che soffrirono nei lager o furono uccisi sul posto solo per essersi rifiutati di accettare di scendere a patti con i repubblichini ed i nazisti.
Serve per ricordare infine la resistenza nelle fabbriche e nelle scuole e nelle università ed in tutti gli altri luoghi dove la coscienza delle persone era riuscita ad allontanare il fascismo.

Non era necessario essere eroi per fare la scelta giusta. Bastava voler mettersi in campo gratuitamente contro una situazione che si presentava come insostenibile. Moralmente insostenibile. Mettersi in campo per grandi ideali sconosciuti in gran parte, nascosti sotto la polvere di vent’anni di dittatura. La volontà di scegliere diventa quindi più importante della capacità di eroismo, di abnegazione che portò alcuni a salire in montagna.
Una prospettiva civile e nonviolenta della resistenza riporta quella storia al nostro livello. Diventa un modello, non solo un monumento.

Essere partigiani vuol dire scegliere da che parte stare[11]” diceva un intellettuale morto nelle prigioni fasciste. E la Resistenza è stata innanzitutto prendersi la responsabilità della propria scelta di campo, magari fino a quel momento solo morale, a qualsiasi livello ci si fosse impegnati, perché si combatteva tutti per uno stesso ideale: la democrazia, la libertà, la pace.

Parole oggi così comuni, banali. Quasi dei luoghi comuni che vogliono dire sempre meno, ma che fino a settant’anni fa erano termini misteriosi, sconosciuti ai ragazzi che erano nati e vissuti sotto il regime fascista.
E soprattutto in questo senso assume un senso la ribellione non armata al regime. In quanto è un metodo di rivolta che ripudia in primis la stessa educazione e lo stesso modello culturale che il regime fascista aveva importo per anni. Fin da bambini si era inquadrati in formazioni paramilitari, figli della lupa, avanguardisti, giovani del littorio, etc., si sapeva che “Libro e moschetto / Fascista perfetto”, che bisognava “Credere, obbedire e combattere” e che i giovani erano soprattutto “l’esercito di domani”. La richiesta di pace ed il rifiuto di portare armi erano soprattutto il definitivo rifiuto di questa ideologia che “aveva trasformato l’Italia in una grande caserma[12]”, che anteponeva il soldato al lavoratore, il controllo coloniale alla convivenza tra popoli, il controllo poliziesco al pensiero .

Inoltre parlare di resistenza nonviolenta significa anche trattare di quell’esperienza, come ricordava anche Joyce Lussu, che per molti combattenti fu preparatoria alla definitiva scelta della guerra per bande.
Significa parlare di quegli scioperi operai che interessarono anche la nostra provincia settant’anni fa, che sono serviti per formare una rinnovata coscienza ed informare le nuove generazioni, la generazione dei ventenni che era sempre vissuta sotto il regime fascista, dei suoi diritti. Del fatto che esisteva la possibilità di incrociare le braccia, esercitando lo strumento di lotta nonviolenza dello sciopero generale. Del fatto che si potesse scendere nelle piazze ad urlare “Pane, pace e libertà”, unendo le rivendicazioni economiche alla lotta politica. Alla richiesta di quella pace che il fascismo aveva sempre negato sia sul fronte esterno, con le guerre coloniali prima e con la guerra mondiale poi, sia sul fronte interno, con il confino, gli omicidi politici e la polizia segreta.
Se Cicerone vedeva la pace come tranquilla libertà[13] è difficile leggere in qualsiasi momento della dittatura fascista un momento di vera pace.

Ma queste ed altre riflessioni sulla ricerca della pace e della nonviolenza nel corso della resistenza servirebbero a poco se non si vedessero i frutti di quelle richieste e di questi desideri nell’oggi.
Norberto Bobbio con una bella immagine ricordava come “lo storico futuro giudicherà l’albero per i frutti e non per le radici[14]” e quindi è all’oggi che dobbiamo guardare. Cosa è rimasto dell’aspirazione non violenta di cui abbiamo detto? E soprattutto, troviamo riscontro di ciò che si è detto?
Offro questo mio ultimo istante per la pace nel mondo[15]” ha scritto nella sua ultima lettera il giovane operaio Bruno Pelizzari, fucilato nel 1945. E la nostra Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza ha tratto le conseguenze di ciò, ha accolto il desiderio di pace espresso in quegli scioperi di settant’anni fa all’articolo 11, con le meravigliose parole “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”. Un rifiuto chiaro, sia etico che giuridico. E quella parola ripudia, propria del linguaggio giuridico collegato alla rottura del legame matrimoniale, sembra quasi la definitiva rottura dello strettissimo rapporto che legava il fascismo con la guerra e la X flottiglia Mas con la morte, con la quale, si diceva, i combattenti di questa brigata facessero l’amore[16]

 La guerra di resistenza, anche quella armata, anche quella in montagna, era una guerra che si combatteva per non avere più la guerra in futuro. Non per il predominio, per potersi preparare meglio ad altri conflitti.
L’articolo 11 della Costituzione ci dà il senso di quelle aspirazioni, e credo che se oggi poco si rispetta del dettato costituzionale, questa non sia una colpa da darsi ai costituenti, ma forse alle nostre scelte. Alla nostra attenzione.
Oggi siamo in pace, come dice l’articolo 11 della nostra Costituzione o abbiamo guerre mascherate in giro per il mondo? E se siamo in pace, che senso ha comprare ancora armamenti sempre più grandi, sempre più letali? Le risposte a queste domande sono politica, e ciascuno ha le proprie opinioni in merito. Ma il porsi questi quesiti è civiltà. È mantenere alta l’attenzione verso quei valori che i martiri della Resistenza ci hanno insegnato verso il mondo che ci circonda.

Parlando di pace oggi, credo che sia anche importante pensare anche Unione Europea. Da quell’organizzazione che nel 1950 Robert Shumann, allora ministro degli Esteri francese definiva come il mezzo per rendere “la guerra in Europa [è] non solo impensabile, ma materialmente impossibile[17]
Anche per questo devo ammettere che mi sconcerta il fatto che questa campagna elettorale per le prossime elezioni europee sia iniziata così tardi e sembra solo con slogan o la riproposizione dei temi italiani. Mi sconcerta perché sembra davvero che di Europa, della formazione delle istituzioni europee, delle dinamiche e delle prossime leggi europee non abbia più senso parlare. Che di Europa non si voglia più parlare. Come se l’idea europea fosse ormai superata, un retaggio di illusioni post-belliche di pace e fratellanza, tanto che ormai si tagliano anche quei fondi che servivano, con il progetto Erasmus, a permettere ai giovani di vedere l’Europa, di diventare davvero cittadini europei.
Ascoltando le tribune politiche sembra quasi che l’Europa sia nata da delle decisioni di dei burocrati che a Berlino o a Bruxelles si divertivano a pensare di controllare i nostri conti pubblici per tagliare il nostro stato sociale.
Ci siamo forse dimenticati che l’unità europea è nata dal sacrificio di coloro che poco meno di ottant’anni fa si diressero in Spagna a combattere per la legittima repubblica contro la dittatura franchista, che l’Europa è nata dall’impegno di coloro che, degnamente rappresentati per Brescia da Italo Nicoletto, ebbero il coraggio di combattere in Spagna, Francia, ed Italia per gli stessi ideali? Contro le stesse tirannie? Lì è nata l’Europa. Dall’impegno di studio di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi che, a Ventotene, al confino, ebbero il sogno, e forse allora era più un’illusione, di scrivere un documento politico per la fondazione degli Stati Uniti d’Europa. L’Unione Europea è nata dal sangue dei partigiani della 122^ Garibaldi come da quello dei “maquis” francesi o dei giovani resistenti tedeschi della Rosa Bianca. Da persone che non si conoscevano le une con le altre, ma che combattevano per lo stesso fine su di un panorama continentale.
E dopo la vittoria i sopravvissuti cosa potevano fare? Rinchiudersi ancora ciascuno nei propri confini? sarebbe stato facile... Provare a ricostruire l’autarchia nazionale altrettanto. E con quella perché non dire ancora che gli italiani sono i migliori? Perché non aprire nuovi campi di concentramento per gli altri, per i diversi? La scelta che fu fatta fu però diversa. E fu di ricercare la nostra storia comune. Le nostre comuni esperienze. Non, come fu fatto con il patto atlantico o con il patto di Varsavia, per continuare altre guerre, altre contrapposizioni ma per ritrovarci uniti in una cultura condivisa, in delle scelte comuni di pace e di garanzia di diritti e di libertà.
In questo senso andava il progetto della Costituzione Europea! E se quest’Europa ha tradito le aspettative nostre ed il sacrificio delle persone che abbiamo ricordato, non possiamo semplicemente denunciare come fallita quest’esperienza, ma ripartire, scrivere delle regole migliori, trovare nuovi diritti da proteggere, dare vera rappresentanza a tutte le componenti che formano il Popolo Europeo. Chiudersi. Pensare di rialzare i muri, le frontiere militari ed economiche, è da folli.
Dobbiamo, anche sul grande panorama europeo, continuare a credere nel sogno comune che “la guerra, mai più!”, “che i nazionalismi nazi-fascisti mai più”.
E la libertà? Siamo davvero in un paese libero? Dove la pace è anche tranquilla libertà?

Scriveva Luigi Longo che “La libertà è indivisibile. Negata in parte, si negherà in toto; negata agli uni si negherà a tutti. Se lo ricordino quanti hanno a cuore le sorti del nostro paese e il suo avvenire democratico[18]”. Chi se lo ricorda oggi? Cosa ci dicono i Centri di Identificazione e di Espulsione aperti da anni nel nostro paese, e di cui ci ricordiamo solo davanti alle loro drammatiche manifestazioni di dolore?

Sarebbe però facile chiedersi cosa voglia dire tutto questo oggi. Va bene la Costituzione non applicata, va bene la nonviolenza, va bene la Resistenza, ma tutto questo sembra che con gli anni abbia perso rilevanza e forza, che sia quasi diventato solo retorica, rispetto ad una quotidianità segnata dalla crisi economica, dalla disoccupazione, da altri pericoli.

Scriveva il partigiano Santiago, cioè Italo Calvino, che “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.[19]
Penso che le persone che abbiamo citato, i luoghi a cui abbiam fatto riferimento, i fatti che abbiamo ricordato siano parte delle cose che “non sono inferno”, ed è per questo, non solo per piacer di retorica, che vanno ricordate.





[1] March Bloch; Apologia della storia
[2] Per informazioni dettagliate: Nunzia Augeri; Le repubbliche partigiane. Nascita di una democrazia, Ed. Spazio Tre, 2011.
[3] Rilevante a tal proposito il decreto legislativo luogotenenziale del 21 agosto 1945, n. 518, dal titolo “Disposizioni concernenti il riconoscimento delle qualifiche dei partigiani e l’esame delle proposte di ricompense” (d. lg. Lgt. 518/1945)
[4] Raccontava il Partigiano Lino Pedroni come in alcuni paesi i civili esponessero ad asciugare un diverso numero di lenzuola in base al rischio o meno di un rastrellamento [testimonianza raccolta dall’autore]
[5] Citato anche in Cucchini, Cortese; La Resistenza taciuta. “Ricorderà Lidia Menapace: «Io ero staffetta del Cln di Novara, una città medaglia d’oro della Resistenza, nella cui provincia la Resistenza armata (verso la quale ebbi e ho il massimo di solidarietà non acritica) fu grande, diffusa e tremenda; come staffetta ero disposta a stampare e distribuire stampa clandestina, affiggere manifesti illegali, violando il coprifuoco accompagnare al sicuro perseguitati politici o razziali, far evadere prigionieri politici portare messaggi, viveri, medicinali alle formazioni, arrivavo fino a distribuire plastico per sabotaggi alle cose, non ero disposta a portare armi. Non dirò nemmeno che ciò mi derivasse da una precisa coscienza pacifista, ero solo certa che non avrei mai potuto uccidere nessuno, ero certa oltretutto di avere paura delle armi (cosa che considero molto civile) e che magari mi sarei fatta del male da me. Per un impasto di ragioni non ero disposta a portare armi e mai nessuno mi forzò a farlo, né mi impose o suggerì altrimenti.»
[6] Francesco Pugliese; Abbasso la guerra
[7] Tommasi di Lampedusa; il gattopardo
[8] Guerino Dalola; Diario della Resistenza Bresciana
[9] Patria indipendente; speciale 70^ della liberazione; aprile 2014
[10] Guerino Dalola; Diario della Resistenza Bresciana
[11] Antonio Gramsci; La città futura
[12] Marino Ruzzenenti; Bruno, ragazzo partigiano; Quaderni della fondazione Micheletti; Brescia, 2008, pg. 18
[13] Cicerone; Seconda Filippica, 113
[14] A Ruiz Miguel, La contribucion teorico-politica de N. Bobbio al debate contemporaneo de la izquierda italiana
[15] La lettera è conservata presso: Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia Ferruccio Parri - Milano; Fondo Malvezzi Piero Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana e europea, b. 4 fasc. 9
[16] Benedetta Tobagi; Una stella incoronata di buio
[17] c.d. Dichiarazione Shumann; 9 maggio 1950
[18] Luigi Longo; Chi ha tradito la Resistenza; pg 204
[19] Italo Calvino; Le città invisibili; Mondadori; pg 164