Salve
a tutti. Buona mattina! Buon 25 aprile!
sono davvero onorato di avere l’opportunità di
essere qui con voi oggi e ringrazio di cuore le associazioni che, insieme al
Comune di Roncadelle, anche quest’anno hanno organizzato questa commemorazione.
In primis la sezione ANPI Peppino Impastato, della quale fa parte anche il
presidente onorario dell’ANPI provinciale Cecco
Pellacini, che tutti i giorni ed in particolare oggi dovremmo ringraziare
per la sua scelta di settant’anni fa, e, per la prima volta, anche il Movimento
Nonviolento di Brescia.
Nonviolenza
e Resistenza quindi. Un binomio che, se inizialmente potrebbe sembrare quanto
meno particolare è, in verità, forte di senso e di significati e di nuovi
stimoli per l’oggi
.
Profondamente
denso di nuovi significati per l’oggi in quanto la riflessione storica e
storiografica non può mai considerarsi un’operazione avulsa dal proprio tempo.
La Storia, come diceva Marc Bloch è,
innanzitutto, un “luogo d’incontro degli uomini[1]”
e quindi si configura come qualcosa di vivo, di fecondo, che offre sempre nuovi
spunti e nuovi apporti. La storia risponde soprattutto alle domande che noi, la
società del tempo, le poniamo. Ed oggi la società non pone più alla storia le
stesse domande che le poteva porre sessanta o trenta anni fa
Negli
anni seguenti la liberazione dal nazifascismo la domanda che la società poneva
alla storia era una domanda di chiarezza. Era necessario capire chi erano stati
i partigiani e chi no, per sapere a chi applicare alcuni provvedimenti e per
capire come raccogliere i cocci del paese che fino a qualche mese prima
dell’aprile 1945 era diviso in più stati, in più regioni, in più zone di
operazione militari. Quante “Italie” sono esistite in quei mesi? C’era la zona
di occupazione tedesca, la repubblica di Salò, le varie repubbliche partigiane[2],
la zona di operazione militare alleata ed il governo del Regno d’Italia formato
da uomini del CLN.
Era
ovvio quindi che le prime preoccupazioni furono quelle di chiarezza. Di stabilire
dei criteri tecnici, ed essendo tecnici anche opinabili, per definire le
differenze tra partigiano, patriota e benemerito, non di elaborare una
riflessione su cosa era stata la Resistenza nel suo complesso e quindi nella
sua complessità.[3]
Le
principali forze politiche che avevano composto i Comitati di Liberazione
Nazionale prima e l’Assemblea Costituente poi, avevano inoltre ciascuna una diversa
lettura della Lotta resistenziale. Avevano delle diverse immagini della
Resistenza da portare avanti ma che non comprendevano l’elaborazione di ciò che
è stata la ribellione antifascista e nonviolenta di base.
Se
infatti il maggior partito di governo dell’inizio della nostra storia
repubblicana, la Democrazia Cristiana, vedeva non positivamente un’interpretazione
che potesse leggere la guerra di Resistenza come guerra di popolo, quasi una
guerra rivoluzionaria nella quale oggettivamente le componenti di sinistra
avevano svolto un ruolo preminente, avendo rappresentato circa il 70% dei
partigiani combattenti, il principale partito d’opposizione, il Partito
Comunista Italiano, sentiva principalmente la ferma necessità di far vedere
come fosse legittimato a far parte del gioco democratico del paese, nonostante
le sue posizioni di politica estera, e dava quindi maggior importanza al
ricordo dei suoi martiri esemplari morti per la libertà, che a sottolineare la
dimensione popolare dello scontro.
Della
Resistenza pertanto si sono solitamente studiate e ricordate le battaglie, la
guerriglia in montagna ed in città. Si rammentano quindi delle scene di guerra
e di morte, che si collocano all’interno del grande scenario di guerra e di
morte che è stata la seconda guerra mondiale.
Per
via delle domande che sono state poste alla storia in quegli anni, le cui
risposte sono oggi parte dei nostri libri di testo, le Resistenza viene vista
come uno degli eserciti in lotta. Un esercito moralmente superiore agli altri.
Un esercito formato dai cittadini italiani, dai partigiani, ma sempre e solo
come un esercito.
Solo
ponendo alla storia altre domande però si può vedere il forte nesso che corre
fra nonviolenza civile e resistenza antifascista.
E
cioè: cosa c’è stato prima di quella scelta? Come hanno fatto dei gruppi,
tenuti insieme solo da grandi ideali ma senza sostegno logistico e materiale
bellico, a fare venti mesi di guerriglia?
Sono
le risposte a queste domande che danno la cifra di un più ampio movimento di
Liberazione nazionale, composto da tanti uomini e donne che, nel momento del
bisogno, sono stati in grado di assumersi la propria dose di responsabilità,
dando pertanto una risposta alla situazione di barbarie che si trovavano a
vivere. Solo a titolo di esempio di potrebbe fare riferimento a Gino Bartali che in silenzio,
assumendosi i suoi rischi, si impegnò anche lui per la resistenza, trasportando
messaggi in giro per l’Italia.
Queste
risposte e questi esempi ovviamente non mettono sottotraccia la resistenza
armata, che era inevitabile in un contesto di guerra totale come quello degli ultimi
anni del conflitto mondiale, terminato con l’uso dell’arma atomica, una lotta che
ci ha permesso di uscire in modo più dignitoso come Italia dal conflitto
mondiale e che ha portato, come ammise lo stesso Churchill, ad una riduzione
notevole dei tempi del secondo conflitto mondiale, ma è utile per aprire ed
allargare il campo.
La
scelta nonviolenta non è stata quindi una scelta contrapposta a quella della
resistenza armata, ma ne è stata complementare. Simbiotica. Non ci sarebbe
potuta essere l’una senza l’altra.
I
partigiani non sono stati soli, ed oltre alle staffette c’erano intere famiglie
ed interi villaggi che aiutavano le formazioni, ospitando in casa partigiani o
anche solo comunicando ai combattenti con i metodi più vari il rischio di un
rastrellamento[4].
Come diceva la partigiana
Gioconda Paleotti, meglio nota come Joyce Lussu “La formazione
partigiana è tipicamente antimilitarista, sia per la sua struttura interna e la
sua cultura che per il suo rapporto col territorio e la popolazione. È composta
di civili che avversavano il militarismo e la guerra, e che prendono le armi
perché è l’unico mezzo per fermare l’aggressore e non farsene complici
rimanendo passivi… Chiunque sia stato partigiano sa tutto sulla difesa
nonviolenta perché, prima di risolversi ad affrontare lo scontro armato… aveva
già escogitato e attuato tutti i mezzi possibili di resistenza e di difesa che
prescindano dall’uso delle armi. Lidia Menapace mi ricorda sempre[5],
quando discutiamo di queste cose, che nella lotta partigiana a differenza della
guerra “normale”, è pienamente riconosciuto il diritto all’obiezione di
coscienza vale a dire a scegliere altri compiti e ruoli che non comportino la
necessità di uccidere[6]”
La Resistenza, da
questa testimonianza, si configura quindi in una polifonia, una pluralità di
forme di ruoli di compiti, con una ricchezza maggiore di figure e di immagini
in cui potersi riconoscere, con più esempi da trasportare all’oggi.
Polifonia che si
riscontra anche nei vari nomi che sono stati dati a questo tipo di esperienza,
che sono cambiati, nel corso che l’approccio storiografico mutava, da “la
resistenza passiva”, “l’altra resistenza”, a “la resistenza
taciuta” o “l’oscura resistenza”, fino a vedersi riconosciuta una
sua autonomia propositiva con le espressioni “resistenza nonviolenta” e
“resistenza civile”.
Penso inoltre che un
tale approccio permetta anche di superare l’idea di un popolo passivo, di una
popolazione disorientata fra i due fuochi di una guerra che alcuni definiscono
civile. Un popolo che sembra indifferente
alle sorti del paese attendendo che “tutto cambi affinché nulla cambi[7]”.
Rivalutare la resistenza delle popolazioni, dei renitenti alla leva, dei
deportati e degli internati militari serve anche quindi a togliere il dare
nuova luce all’intera vicenda resistenziale, dandole finalmente anche nella
storiografia la base comune a tutti che merita.
Riscoprire la
nonviolenza della resistenza serve per dare memoria, ad esempio, a tutti coloro
che decidevano di ospitare gli oppositori del nazifascismo nelle loro case,
come fece, ad esempio, nel castello di Roncadelle, la famiglia Guaineri[8].
E questa non era una scelta neutra visto
che poteva portare, nel caso ciò fosse stato scoperto, alla fucilazione di
tutti i membri della famiglia o, in caso di denuncia, al premio di 5000 lire e
5 chili di sale secondo i diktat di Kesserling[9].
Serve per ricordare le
staffette, che rischiavano la vita passando fra i tedeschi con lettere e
munizioni rischiando la morte e la prigione, come fece, ad esempio, Carmela
Trainini[10]
per Roncadelle. Staffetta della 122^ Garibaldi, incarcerata per mesi a Milano.
Serve per ricordare gli
internati militari, che soffrirono nei lager o furono uccisi sul posto solo per
essersi rifiutati di accettare di scendere a patti con i repubblichini ed i
nazisti.
Serve per ricordare
infine la resistenza nelle fabbriche e nelle scuole e nelle università ed in
tutti gli altri luoghi dove la coscienza delle persone era riuscita ad
allontanare il fascismo.
Non era necessario
essere eroi per fare la scelta giusta. Bastava voler mettersi in campo
gratuitamente contro una situazione che si presentava come insostenibile.
Moralmente insostenibile. Mettersi in campo per grandi ideali sconosciuti in
gran parte, nascosti sotto la polvere di vent’anni di dittatura. La volontà di
scegliere diventa quindi più importante della capacità di eroismo, di
abnegazione che portò alcuni a salire in montagna.
Una prospettiva civile
e nonviolenta della resistenza riporta quella storia al nostro livello. Diventa
un modello, non solo un monumento.
“Essere partigiani
vuol dire scegliere da che parte stare[11]”
diceva un intellettuale morto nelle prigioni fasciste. E la Resistenza è stata
innanzitutto prendersi la responsabilità della propria scelta di campo, magari
fino a quel momento solo morale, a qualsiasi livello ci si fosse impegnati,
perché si combatteva tutti per uno stesso ideale: la democrazia, la libertà, la
pace.
Parole oggi così
comuni, banali. Quasi dei luoghi comuni che vogliono dire sempre meno, ma che
fino a settant’anni fa erano termini misteriosi, sconosciuti ai ragazzi che
erano nati e vissuti sotto il regime fascista.
E soprattutto in questo
senso assume un senso la ribellione non armata al regime. In quanto è un metodo
di rivolta che ripudia in primis la stessa educazione e lo stesso modello
culturale che il regime fascista aveva importo per anni. Fin da bambini si era
inquadrati in formazioni paramilitari, figli della lupa, avanguardisti, giovani
del littorio, etc., si sapeva che “Libro e moschetto / Fascista perfetto”,
che bisognava “Credere, obbedire e combattere” e che i giovani erano
soprattutto “l’esercito di domani”. La richiesta di pace ed il rifiuto
di portare armi erano soprattutto il definitivo rifiuto di questa ideologia che
“aveva trasformato l’Italia in una grande caserma[12]”,
che anteponeva il soldato al lavoratore, il controllo coloniale alla convivenza
tra popoli, il controllo poliziesco al pensiero .
Inoltre parlare di
resistenza nonviolenta significa anche trattare di quell’esperienza, come
ricordava anche Joyce Lussu, che per
molti combattenti fu preparatoria alla definitiva scelta della guerra per bande.
Significa parlare di
quegli scioperi operai che interessarono anche la nostra provincia settant’anni
fa, che sono serviti per formare una rinnovata coscienza ed informare le nuove
generazioni, la generazione dei ventenni che era sempre vissuta sotto il regime
fascista, dei suoi diritti. Del fatto che esisteva la possibilità di incrociare
le braccia, esercitando lo strumento di lotta nonviolenza dello sciopero
generale. Del fatto che si potesse scendere nelle piazze ad urlare “Pane, pace
e libertà”, unendo le rivendicazioni economiche alla lotta politica. Alla
richiesta di quella pace che il fascismo aveva sempre negato sia sul fronte
esterno, con le guerre coloniali prima e con la guerra mondiale poi, sia sul
fronte interno, con il confino, gli omicidi politici e la polizia segreta.
Se Cicerone vedeva la pace come tranquilla libertà[13]
è difficile leggere in qualsiasi momento della dittatura fascista un momento di
vera pace.
Ma queste ed altre
riflessioni sulla ricerca della pace e della nonviolenza nel corso della
resistenza servirebbero a poco se non si vedessero i frutti di quelle richieste
e di questi desideri nell’oggi.
Norberto Bobbio con una
bella immagine ricordava come “lo storico futuro giudicherà l’albero per i
frutti e non per le radici[14]”
e quindi è all’oggi che dobbiamo guardare. Cosa è rimasto dell’aspirazione non
violenta di cui abbiamo detto? E soprattutto, troviamo riscontro di ciò che si
è detto?
“Offro questo mio
ultimo istante per la pace nel mondo[15]”
ha scritto nella sua ultima lettera il giovane operaio Bruno Pelizzari, fucilato nel 1945. E la nostra Costituzione
repubblicana nata dalla Resistenza ha tratto le conseguenze di ciò, ha accolto
il desiderio di pace espresso in quegli scioperi di settant’anni fa
all’articolo 11, con le meravigliose parole “L’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”. Un rifiuto chiaro,
sia etico che giuridico. E quella parola ripudia, propria del linguaggio
giuridico collegato alla rottura del legame matrimoniale, sembra quasi la
definitiva rottura dello strettissimo rapporto che legava il fascismo con la
guerra e la X flottiglia Mas con la morte, con la quale, si diceva, i
combattenti di questa brigata facessero l’amore[16]
La guerra di resistenza, anche quella armata,
anche quella in montagna, era una guerra che si combatteva per non avere più la
guerra in futuro. Non per il predominio, per potersi preparare meglio ad altri
conflitti.
L’articolo 11 della
Costituzione ci dà il senso di quelle aspirazioni, e credo che se oggi poco si
rispetta del dettato costituzionale, questa non sia una colpa da darsi ai
costituenti, ma forse alle nostre scelte. Alla nostra attenzione.
Oggi siamo in pace, come
dice l’articolo 11 della nostra Costituzione o abbiamo guerre mascherate in
giro per il mondo? E se siamo in pace, che senso ha comprare ancora armamenti
sempre più grandi, sempre più letali? Le risposte a queste domande sono
politica, e ciascuno ha le proprie opinioni in merito. Ma il porsi questi
quesiti è civiltà. È mantenere alta l’attenzione verso quei valori che i
martiri della Resistenza ci hanno insegnato verso il mondo che ci circonda.
Parlando di pace oggi,
credo che sia anche importante pensare anche Unione Europea. Da
quell’organizzazione che nel 1950 Robert Shumann, allora ministro degli Esteri
francese definiva come il mezzo per rendere “la guerra in Europa [è] non
solo impensabile, ma materialmente impossibile[17]”
Anche per questo devo
ammettere che mi sconcerta il fatto che questa campagna elettorale per le
prossime elezioni europee sia iniziata così tardi e sembra solo con slogan o la
riproposizione dei temi italiani. Mi sconcerta perché sembra davvero che di
Europa, della formazione delle istituzioni europee, delle dinamiche e delle
prossime leggi europee non abbia più senso parlare. Che di Europa non si voglia
più parlare. Come se l’idea europea fosse ormai superata, un retaggio di
illusioni post-belliche di pace e fratellanza, tanto che ormai si tagliano
anche quei fondi che servivano, con il progetto Erasmus, a permettere ai
giovani di vedere l’Europa, di diventare davvero cittadini europei.
Ascoltando le tribune
politiche sembra quasi che l’Europa sia nata da delle decisioni di dei
burocrati che a Berlino o a Bruxelles si divertivano a pensare di controllare i
nostri conti pubblici per tagliare il nostro stato sociale.
Ci siamo forse
dimenticati che l’unità europea è nata dal sacrificio di coloro che poco meno
di ottant’anni fa si diressero in Spagna a combattere per la legittima
repubblica contro la dittatura franchista, che l’Europa è nata dall’impegno di
coloro che, degnamente rappresentati per Brescia da Italo Nicoletto, ebbero il
coraggio di combattere in Spagna, Francia, ed Italia per gli stessi ideali?
Contro le stesse tirannie? Lì è nata l’Europa. Dall’impegno di studio di
Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi che, a Ventotene, al confino, ebbero il
sogno, e forse allora era più un’illusione, di scrivere un documento politico
per la fondazione degli Stati Uniti d’Europa. L’Unione Europea è nata dal
sangue dei partigiani della 122^ Garibaldi come da quello dei “maquis” francesi
o dei giovani resistenti tedeschi della Rosa Bianca. Da persone che non si
conoscevano le une con le altre, ma che combattevano per lo stesso fine su di
un panorama continentale.
E dopo la vittoria i
sopravvissuti cosa potevano fare? Rinchiudersi ancora ciascuno nei propri
confini? sarebbe stato facile... Provare a ricostruire l’autarchia nazionale
altrettanto. E con quella perché non dire ancora che gli italiani sono i
migliori? Perché non aprire nuovi campi di concentramento per gli altri, per i
diversi? La scelta che fu fatta fu però diversa. E fu di ricercare la nostra
storia comune. Le nostre comuni esperienze. Non, come fu fatto con il patto
atlantico o con il patto di Varsavia, per continuare altre guerre, altre
contrapposizioni ma per ritrovarci uniti in una cultura condivisa, in delle
scelte comuni di pace e di garanzia di diritti e di libertà.
In questo senso andava
il progetto della Costituzione Europea! E se quest’Europa ha tradito le
aspettative nostre ed il sacrificio delle persone che abbiamo ricordato, non
possiamo semplicemente denunciare come fallita quest’esperienza, ma ripartire,
scrivere delle regole migliori, trovare nuovi diritti da proteggere, dare vera
rappresentanza a tutte le componenti che formano il Popolo Europeo. Chiudersi.
Pensare di rialzare i muri, le frontiere militari ed economiche, è da folli.
Dobbiamo, anche sul
grande panorama europeo, continuare a credere nel sogno comune che “la guerra,
mai più!”, “che i nazionalismi nazi-fascisti mai più”.
E la libertà? Siamo
davvero in un paese libero? Dove la pace è anche tranquilla libertà?
Scriveva Luigi Longo che “La libertà è indivisibile.
Negata in parte, si negherà in toto; negata agli uni si negherà a tutti. Se lo
ricordino quanti hanno a cuore le sorti del nostro paese e il suo avvenire
democratico[18]”.
Chi se lo ricorda oggi? Cosa ci dicono i Centri di Identificazione e di Espulsione
aperti da anni nel nostro paese, e di cui ci ricordiamo solo davanti alle loro drammatiche
manifestazioni di dolore?
Sarebbe però facile
chiedersi cosa voglia dire tutto questo oggi. Va bene la Costituzione non
applicata, va bene la nonviolenza, va bene la Resistenza, ma tutto questo
sembra che con gli anni abbia perso rilevanza e forza, che sia quasi diventato
solo retorica, rispetto ad una quotidianità segnata dalla crisi economica,
dalla disoccupazione, da altri pericoli.
Scriveva il partigiano Santiago, cioè Italo Calvino, che “L’inferno dei viventi
non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che
abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non
soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne
parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige
attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in
mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.[19]”
Penso che le persone
che abbiamo citato, i luoghi a cui abbiam fatto riferimento, i fatti che
abbiamo ricordato siano parte delle cose che “non sono inferno”, ed è per
questo, non solo per piacer di retorica, che vanno ricordate.
[1]
March Bloch; Apologia della storia
[2]
Per informazioni dettagliate: Nunzia Augeri; Le repubbliche partigiane. Nascita
di una democrazia, Ed. Spazio Tre, 2011.
[3]
Rilevante a tal proposito il decreto legislativo luogotenenziale del 21 agosto
1945, n. 518, dal titolo “Disposizioni concernenti il riconoscimento delle
qualifiche dei partigiani e l’esame delle proposte di ricompense” (d. lg. Lgt.
518/1945)
[4]
Raccontava il Partigiano Lino Pedroni come in alcuni paesi i civili esponessero
ad asciugare un diverso numero di lenzuola in base al rischio o meno di un
rastrellamento [testimonianza raccolta dall’autore]
[5]
Citato anche in Cucchini, Cortese; La Resistenza taciuta. “Ricorderà Lidia
Menapace: «Io ero staffetta del Cln di Novara, una città medaglia d’oro della
Resistenza, nella cui provincia la Resistenza armata (verso la quale ebbi e ho
il massimo di solidarietà non acritica) fu grande, diffusa e tremenda; come
staffetta ero disposta a stampare e distribuire stampa clandestina, affiggere
manifesti illegali, violando il coprifuoco accompagnare al sicuro perseguitati
politici o razziali, far evadere prigionieri politici portare messaggi, viveri,
medicinali alle formazioni, arrivavo fino a distribuire plastico per sabotaggi
alle cose, non ero disposta a portare armi. Non dirò nemmeno che ciò mi
derivasse da una precisa coscienza pacifista, ero solo certa che non avrei mai
potuto uccidere nessuno, ero certa oltretutto di avere paura delle armi (cosa
che considero molto civile) e che magari mi sarei fatta del male da me. Per un
impasto di ragioni non ero disposta a portare armi e mai nessuno mi forzò a
farlo, né mi impose o suggerì altrimenti.»
[6]
Francesco Pugliese; Abbasso la guerra
[7]
Tommasi di Lampedusa; il gattopardo
[8]
Guerino Dalola; Diario della Resistenza Bresciana
[9]
Patria indipendente; speciale 70^ della liberazione; aprile 2014
[10]
Guerino Dalola; Diario della Resistenza Bresciana
[11]
Antonio Gramsci; La città futura
[12]
Marino Ruzzenenti; Bruno, ragazzo partigiano; Quaderni della fondazione
Micheletti; Brescia, 2008, pg. 18
[13]
Cicerone; Seconda Filippica, 113
[14]
A Ruiz Miguel, La contribucion teorico-politica de N. Bobbio al debate
contemporaneo de la izquierda italiana
[15]
La lettera è conservata presso: Istituto Nazionale per la Storia del Movimento
di Liberazione in Italia Ferruccio Parri - Milano; Fondo Malvezzi Piero Lettere
dei condannati a morte della Resistenza italiana e europea, b. 4 fasc. 9
[16]
Benedetta Tobagi; Una stella incoronata di buio
[17]
c.d. Dichiarazione Shumann; 9 maggio 1950
[18]
Luigi Longo; Chi ha tradito la Resistenza; pg 204
[19]
Italo Calvino; Le città invisibili; Mondadori; pg 164