Ti conosco, Calini. Ti ho visto in tutte le luci del
giorno e della notte. Più volte ho visto il tramonto dal ballatoio. Meno frequentemente
l’alba, ma quelle occasioni sono forse ricordi più belli. Conosco alla
perfezione quanto tempo ci mette la macchinetta a fare il caffè espresso senza
zucchero: è ormai un automatismo prenderlo senza nemmeno controllare se è
pronto. So quanti scalini ci sono tra un’ala e l’altra. So quali sono gli
ingressi per i sotterranei e come relazionarmi con ogni bidello o segretaria.
Ma tu forse sai più di me di quanto io potrò mai scoprire
su di te. Non lo so. Non so nemmeno se mi piacerebbe saperlo o no.
So che mi hai cambiato, Calini. Mi hai fatto mutare a
tutti i livelli. Mi ha cambiato in molte cose. Forse in troppe. Non so se sempre
in meglio. Mi ha insegnato allo stesso
tempo a rapportarmi con i miei compagni di classe, cosa che ho sempre avuto
difficoltà a fare alle medie, ed anche a sperare che fossero loro gli agnelli
sacrificali delle interrogazioni dell’ora successiva. Non è bellissimo… Hai ben
da dire tu che è la vita. “Bellum omnium contra omnes”. “I capponi di Renzo”.
Sì, certo. Ma forse preferivo per questo aspetto prima, quando la mia scuola
non era ancora una questione di sopravvivenza giornaliera contro il fato dei “numerini”
estratti.
E poi hai cambiato le mie aspirazioni. Non so in effetti se
le hai davvero cambiate o mi hai solo aperto gli occhi, ma poi il concetto non
è che in pratica cambi molto. Se la prima volta che entrai da quale portone
come studente sognavo di diventare un matematico, uno di quelli che avrebbero
risolto i problemi di Hilbert, ora ti lascio odiando le derivate e cercando
tutta la bellezza nei versi, nei ritmi ancestrali che regolano la caduta delle
foglie ed i battiti del cuore umano. Nella letteratura, per intenderci. Un
verso per te? Ora? Così su due piedi? Forse “Oh, lente lente currite noctis
equi”, sussurato dal Faust di Marlowe quando ormai le sue ore spensierate
stavano finendo. Non ti piace? Qualcosa di più personale? Non ti sembra che
possa benissimo descrivere la mia sensazione di non volerti lasciare del tutto
proprio ora che manca poco, esattamente come Faust si attaccò alla vita quando
ormai mancavano solo pochi secondi all’ultimo ingresso di Mefistofele sul
palcoscenico?
Sei, Calini, una casa abbastanza grande per aver sempre
gente da conoscere, ed abbastanza piccola per permettere il generarsi di quelle
piccole casualità che permeano le giornate di senso. Quei piccoli incontri e
quei sorrisi strappati sulle scale, e quelle conoscenze casuali e quelle facce
mai più riviste.
Solo un’ultima immagine mi sovviene alla mente. Un viale
alberato, con il polline che turbina dolce come neve. E quei grossi chicchi di
semi si depositano con dolcezza sulle spalle di un bambino di prima liceo che
attende l’inizio del Consiglio di classe trepidante, studiando le proposizioni
per la verifica di grammatica del giorno dopo (andrà male nonostante il
ripasso, 4); e due anni dopo cadono sempre uguali sulle braccia di un giovane
che legge un libro, Lettera ad uno
studente il titolo, attendendo la conferenza con l’autore che si sarebbe
svolta dopo qualche ora e guardando di soppiatto una compagna seduta vicino a
lui a studiare; ma quei leggiadri chicchi si depositano ancora, imperterriti, cinque
anni dopo la prima volta, nei palmi aperti di un ragazzo, che sa di poterli
vedere forse per l’ultima volta, e, braccato dal tempo tiranno, si ferma
sapendo che ne sentirà la mancanza.
E nonostante tutte le ore seduto, tutti i passi nei
corridoi, tutte le parole spese, tutte le ansie subite, tutte le giornate
passate a studiare, tutti i sospiri per le interrogazioni evitate, tutte quelle
angosce secche prima di entrare in scena o in un’assemblea o sul mar
mediterraneo del cortile, tutte le parolacce urlate contro chi voleva occupare
e tutti i sorrisi fatti sulle scale, posso dire, che in quell’immagine, che in
quella neve dolce e calda, riesco sempre a ritrovare, a sognare, il mio Calini.
Anche ora che sto per concludere e firmare questo testo
non mi posso non identificare in qualcosa che mi hai lasciato. Notai infatti un
giorno, in uno scambio via mail con un professoressa, che ella era solita
firmare le sue missive con le lettere del nome minuscolo. Mi vergognai. Come
mai io, insulso studente, avevo la presunzione di firmare con il mio nome
maiuscolo mentre gli stessi professori firmavano in lettere minuscole? Da quel
momento ho quindi cominciato anche io a non mettere più le maiuscole nel mio
nome mentre firmo una mail. Potrà sembrare una cosa stupida ed insignificante,
ma è anche per queste cose, questa e molte altre simili, che sono felice di
avere frequentato il Calini.
Grazie a tutti.