Le radici dell’uomo sono tanto
più salde quanto più si impossessa del suo passato”
(Nietzsche; Sull’utilità e il
danno per la storia nella vita)
Passano lente le
mattine in Piazza della Loggia. Un turista fotografa la piazza. La Loggia,
qualche epigrafe, l’orologio. Di quella colonna sbrecciata dove 40 anni fa
venne posta una bomba, di quel semplice monumento che ricorda otto vite, nelle
sue fotografie, nelle sue memorie, non resterà traccia. Si dirige verso piazza
Paolo VI passando sotto l’orologio. Non si ferma a leggere la convocazione
della lontana manifestazione antifascista. Un gruppo di studenti che esce dal
palazzo comunale attraversa la piazza avvicinandosi alla stele. Si fermano
sulla lapide che ricorda dove fu scagliato il corpo di Alberto Trebeschi. Il
professore comincia a parlare. Alcuni studenti ascoltano. Altri chiacchierano e
scrivono al cellulare. Intanto un ragazzo va a riempire una bottiglietta alla
fontana. Chissà se sa che la posizione di quella fontana entrò nel processo,
allungandolo. Insieme ad altri fatti e depistamenti aumentò i dubbi
permettendo, negli anni, di far perdere al processo accusati, testimoni, forza.
L’allungò, permettendo alla sedia degli imputati di restare quasi sempre vuota.
“Sembra un processo a dei fantasmi” diceva Manlio Milani.
E chi insegue i
fantasmi rischia di sembrare folle agli occhi di chi non li conosce.
Cosa possiamo
sapere oggi, noi che allora non c’eravamo, di quella “uggiosa mattina di
maggio”? Di quel pomeriggio? Di quella pioggia leggera? Ma forse la domanda è
un’altra. Cosa vogliamo sapere oggi, di quelle 900.000 e più pagine di
documentazione processuale? Di quei minuti di terrore?
Abbiamo altro a cui
pensare. La crisi. L’attività scolastica o lavorativa. L’impegno sociale. Gli
amici.
Il premier che ci
accompagnerà in questo anniversario non era ancora nato quando la bomba
scoppiò. A coloro che parlarono ai funerali si dedicano invece francobolli.
Quanto tempo ci
vorrà ancora per rendere quella colonna più simile alle epigrafi che coprono i
Monti di Pietà che al segno d’inciampo e di dolore che ha rappresentato fin
ora?
Sicuramente per evitare ciò non possono bastare i discorsi all’anniversario, ma serve che quelle “urne de’ forti” siano considerate lo strumento per fondare un rito laico di educazione democratica.
È però spesso molto
difficile recuperare il limite tra il vuoto esercizio di retorica e la forza di
una liturgia laica. E quel limite è soprattutto un confine: il confine, usando
le categorie nicciane, tra il perpetuare una memoria antiquaria, vuota, ed il
ricercare una memoria critica, che possa essere “religione civile”
dell’avvenire. Nell’esercizio di retorica, la parola è muta, innocua. Nel rito
laico, invece, la parola riesce a diventare creatrice. Creatrice di idee e
prospettive nuove.
E la differenza è
rappresentata dalla credibilità che agli occhi delle persone hanno quei gesti.
Quelle parole.
Si può quindi capire
il sempre più radicale rifiuto delle celebrazioni rituali che accompagnano la
ricorrenza del 28 maggio da parte di alcuni gruppi. È la risposta distruttiva
alla scarsa credibilità che lo Stato, novello Creonte, ha avuto in questa
vicenda.
Sì, perché lo
Stato, Creonte, tra depistamenti, “servizi deviati” e lungaggini burocratiche
non ha forse semplicemente saputo – o voluto – dare una definitiva sepoltura ai
corpi caduti in Piazza. Ha pianto i cadaveri delle vittime nei Funerali
di Stato, ma poi non è stato ancora (per
quanti anni potrà durare l’illusione di questo “ancora”?) capace di dare
loro Giustizia nelle aule dei tribunali.
E questo fatto,
nonostante la verità storica della strage sia ormai accertata, resta come una
ferita nel rapporto che molti vivono con la ricorrenza del 28 maggio.
Di quale Stato
siamo cittadini? Di quello che parla ai funerali o di quello che non riesce a
trovare dei nomi dietro ad una strage? La risposta spetta a noi? Al nostro
impegno? O, impossibilitati a distinguere tra le due parti, dobbiamo accettare
questa contraddizione: quella di uno stato che ha paura a guardarsi allo specchio?
Se la risposta a queste domande, fino a qualche anno fa, poteva essere personale, fondata sulle proprie esperienze dirette e sulle proprie idee, non si può pensare che anche oggi sia possibile. Se questo conflitto non viene sanato, il rischio è che oggi non si riesca più a rispondere e che i nuovi cittadini, tranne quelli che aderiscono pienamente alla posizione di Antigone, evitino la domanda, derubricando il 28 maggio a semplice ricorrenza stinta, lontana dalla sensibilità moderna come possono essere le date delle battaglie raccolte nei libri di storia.
Tacito, all’inizio
dell’Agricola, sostiene che l’uomo è
preservato dalla perdita della memoria in quanto non può decidere autonomamente
di dimenticare[1]. Se Freud ha comunque espresso alcuni dubbi su questa affermazione, credo
ad ogni modo che il problema sia un altro. Che anche volendo prendere per buona
questa teoria non ci si possa sentire al sicuro.
Perché la memoria
personale o comunque familiare non può passare di generazione in generazione se
non trova una conferma condivisa a livello sociale. Perché se questo riscontro
manca, quest’angoscia non può che diventare rabbia. Amarezza. Sconforto. E la
mistificazione, l’incertezza, sono tutte forme di perdita di memoria. Di scarsa
certezza del passato che non può che trasformarsi in una scarsa fiducia nel
futuro, poiché le domande che rivolgiamo al nostro passato sono le
medesime che rivolgiamo a noi stessi. E le risposte che ci dà il passato sono
quelle che applichiamo all’oggi. “Il fatto che delle stragi non si sia scoperto
niente non è solo un’infamia per gli apparati dello Stato cui questo compito
era demandato.” - scrive lo storico Gianni de Luna in occasione del ventesimo
anniversario della strage - “[…] L’aver ripristinato la consapevolezza che
c’erano alcune cose che non potevano essere conosciute, ambiti entro i quali la
verità non poteva essere accertata ma sarebbe sempre sfuggita al controllo, ha
avuto un effetto molto grave sulle motivazioni alla politica che si erano
diffuse: ha spento la scintilla di entusiasmo e di interesse che si era accesa
per quella nuova concezione della politica intrisa di democrazia in atto”[2].
Fortunatamente sembra che Brescia sia riuscita a resistere almeno parzialmente a questa disaffezione alla politica, forse ancora sull’onda lunga della straordinaria risposta data nelle ore successive alla strage, quando le fabbriche venivano occupate sia per dare un forte segno di denuncia dell’accaduto, sia “perché la gente chiedeva di ‘stare insieme’”[3], quando la sera si riunirono spontaneamente i consigli di quartiere: per capire, confrontarsi, stare vicini. È la stessa necessità di un confronto che si è sentita esplodere durante la presentazione dell’ultimo libro sulla strage, “Una stella incoronata di buio”[4]: ogni inesattezza, ogni ricerca narrativa, ogni dubbio risolto in un modo o nell’altro, sembrava toccare nervi ancora scoperti nella città.
Ma quanto di questo
senso civico profondamente nato in una storia ed in un contesto ben precisi può
essere tramesso oggi? La maggior parte dei partiti che convocarono la
manifestazione antifascista del 1974 oggi non esistono più. Ed allo stesso modo
è difficile immaginare quando, nel primo anniversario della Strage, fu espresso
un forte dissenso per la presenza nella piazza di alcune bandiere
democristiane. Idee, opinioni, scontri, che si fondavano su categorie oggi
lontane, su una quotidianità politica diversa da quella di oggi. Si può pensare
ciò che si vuole su questi cambiamenti politici, ma credo sia evidente che
questi rendano ancora più difficile il comunicare certe esperienze, certe
risposte, portando ad una pericolosa incomunicabilità.
Non vedo pertanto
oggi un particolare rischio nel fatto che “il campo di battaglia della memoria
per la conquista del passato” possa vedere una sconfitta delle forze antifasciste:
ci potranno essere dei dubbi sul come tenere alta la guardia, ma la verità
storica credo che sia oggi difficilmente attaccabile. Tuttavia temo che il pericolo
sia un altro. Il naufragio. Il naufragio nel mare dell’apatia e
dell’indifferenza. Un naufragio senza alcun vincitore.
Per far fronte a
ciò una chiarezza giudiziaria sarebbe stata utile, per non rendere questa “realtà
passata come le sabbie mobili nelle quali tutti affondiamo e di cui nessuno è
al sicuro al cento per cento”[5].
Questo non perché si vogliano dei colpevoli da mettere alla gogna, ma per poter
permettere la cicatrizzazione di una ferita che sanguina ancora.
Possiamo pensare
che quarant’anni, un “inconfondibile ‘marchio di fabbrica’”[6],
un processo infinito, tantissimi libri e sedute di tribunale siano abbastanza,
abbiano chiuso i nostri conti con il passato?
Un’operazione
culturale è ormai l’unica azione che può provare a rendere giustizia.
Un’operazione che possa far riscoprire il potenziale critico che ha la memoria,
diventando un’occasione per confrontarci con il passato e soprattutto rimettere
in discussione il nostro presente.
Non per inseguire i
sogni di ieri, ogni generazione ha e deve avere i suoi, ma per cercare in quei
ricordi il segno di un qualcosa che ci unisce, per il quale si era scesi in
piazza ieri ed ha senso scendere in piazza anche oggi: la democrazia. Un
concetto difficile, a cui forse oggi ci si affida sempre meno e per il quale si
è perso l’entusiasmo che aveva guidato la ricostruzione post-fascista. La democrazia, che è l’unico sistema di governo
che ha la sua forza non nell’esercito, ma nella scuola e nella cultura. E questa
certezza fu chiara fin da subito: “È dalla scuola che dovremo condurre
il nostro impegno democratico […] democrazia
vuol dire confronto critico”[7],
dicevano in piazza alcuni studenti intervistati il 28 maggio 1975. Ed
interrogarsi sulla democrazia, difenderla, è forse l’unico modo per far sì che
quella stele, quelle lapidi nere nel Campo della Gloria del Vantiniano non
restino una lettera morta, ma possano essere simbolo di un martirio che sia
segno di una “vittoria al futuro”[8].
Per far sì che una
pioggerellina leggera ed un cielo scuro non ci ricordino il “grigio diluvio
democratico odierno”[9]
di Andrea Sperelli, ma quella mattina di maggio in cui tanta gente chiedeva
garanzie per un futuro libero.
“La democrazia italiana è uscita vittoriosa da una prova
difficile e maligna. Oggi è possibile, con il nostro impegno e la nostra lotta,
farla più forte e più salda, farla invincibile.”[10]
Con queste parole Franco Castrezzati avrebbe voluto
concludere il suo discorso dal palco del 28 maggio 1974.
Un discorso infinito.
Parole immature per ieri, speriamo adatte per l’oggi.
[1] “Anche
la memoria stessa avremmo perduto, insieme con la voce, se, come il tacere,
così fosse in poter nostro il dimenticare” (Tacito, Agricola, 2.3; Traduzione
di G. Pontiggia)
[2] AA.VV.;
Memoria della Strage – Piazza Loggia 1974-1994; Grafo; 1994
[3] Guido
Baglioni, Costantino Corbari a cura di; Autonomia e contratti; Edizioni Lavoro;
2006
[4] Benedetta
Tobagi; Una stella incoronata di buio; Einaudi; 2013. Presentazione avvenuta il
25 novembre alle 20.30 all’auditorium Capretti
[5] Ryszard Kapuściński;
Nel turbine della storia; Universale Economica Feltrinelli; 2011
[6]
Sentenza/Ordinanza Giudice Istruttore Gianpaolo Zorzi (23 maggio 1993) in I
percorsi della Giustizia – 34 anni di processi; Casa della Memoria
[7]
Bresciaoggi; 29 maggio 1975; pg 12
[8] Tolstòj;
Divino e umano
[9] Gabriele
D’Annuzio; Il piacere
[10] Carlo
Ghezzi, a cura di; Brescia: Piazza della Loggia; Ediesse; 2012