
(Ryszard Kapuściński; Lapidarium)
Ryszard Kapuściński è forse il più grande reporter del XXI secolo, sia per gli scenari e i paesi visti e raccontati, ma, soprattutto, per la sua capacità di raccogliere tutte le sue riflessioni in grandi snodi tematici, tra i quali spicca in particolare il “problema dell’altro”.
Per il reporter, autore di un genere letterario corale come il reportage, l’altro è un essere misterioso ed affascinante. Un insieme di caratteri culturali comuni e di volontà personale che rende ogni incontro un fatto unico ed irripetibile. Ma l’incontro con l’altro non è solo questo, è anche “lo specchio in cui guardarsi e capire chi si è”.
Questa relazione inizia e finisce con l’appello socratico: “Nosci te ipsum” (Conosci te stesso), in quanto il senso della propria identità è sia il necessario punto d’inizio per un incontro che possa essere fecondo, sia il dato che viene arricchito dal confronto e dal contatto con gli altri.
Ricorda infatti Kapuściński che “l’appartenere a un mondo multiculturale esige un forte e maturo senso d’identità”, dato che se non abbiamo delle certezze riguardo alla nostra cultura ed a tutti gli aspetti che sono intessuti nel nostro vissuto esperienziale, l’incontro con l’altro sarà da noi rifiutato, perché avremmo il sentore di poter essere sopraffatti dagli altri, ma non in quanto questo sia un rischio insito nel confronto, ma più perché noi non abbiamo niente da offrire per un arricchimento comune. Per conoscere e riconoscersi vicendevolmente.
Tuttavia, nonostante i pericoli di questa ricerca, l’incontro è necessario. Kapuściński infatti afferma che “la cultura, anzi l’uomo stesso, si crea al contatto con gli altri”, e poi ricorda anche come “gli altri gettano una nuova luce sulla nostra storia personale: grazie a loro ho scoperto il colore della mia pelle, al quale altrimenti non avrei mai pensato.”
Per il reporter l’apertura all’altro è una caratteristica fondamentale della cultura occidentale, in quanto “il primo europeo, ossia il greco, pur bollando come un non-greco (barbaros) chiunque non parlasse la sua lingua, si rendeva conto che questo altro era comunque qualcuno.” È la cultura che fa compiere questo passo, che gli fa scoprire la "curiosità per il mondo". È Erodoto, il “primo reporter”, che evita di giudicare gli altri, per cominciare a conoscerli.
Tuttavia è solo con l’illuminismo, che “l’altro diventa un problema etico in tutti noi”. Infatti la visione dell'alterità in questo periodo culturale si trasforma: l'altro non è più il selvaggio che, cannibale o buono secondo le varie interpretazioni, era comunque una figura isolata dal panorama quotidiano, ma diventa un individuo portatore di una diversa “razza e cultura”, un essere comunque unico e irripetibile. In quegli anni s’incrina anche per la prima volta la netta contrapposizione “europeo-non europeo” che aveva formato la coscienza occidentale. Chi rappresentava l’alterità nel panorama ormai nascente degli stati nazionali e colonialisti? Quanti livelli di altro si stavano configurando?
E quali sono le sfide che il XXI secolo ci propone per definire questa relazione fondante della nostra identità e sempre in continua evoluzione? E come si inserisce il progresso delle comunicazioni in questa situazione? Davvero ci stiamo avviando verso il “villaggio globale” intravisto da Marshall McLuhan? O la vicinanza che ci permette la tecnologia ci rende più simili “alla folla anonima di un grande aeroporto, una folla di persone frettolose, sconosciute tra loro e perfettamente indifferenti le une alle altre”?
A questi e tanti altri spunti, prova a rispondere il reporter Kapuściński, “studioso dell’alterità”, nel libro “L’altro” (2006), che raccoglie alcune sue riflessioni su questo tema, in questo articolo solo brevemente accennate.