Caro professore,
non la conosco, né lei conosce me. Ma se io qualcosa di lei so, so che ha un titolo di studio ed un ruolo che la porteranno ad essere seduto dietro ad una cattedra, lei di me non sa niente.
Questo potrebbe già essere un primo inconveniente nella nostra relazione. Come si fa a comunicare? A comunicare gli argomenti più alti della cultura umana, senza conoscerci? Senza chiamarci per nome? Come può la comunicazione non passare da un riconoscimento reciproco? Ecco, una cosa le chiedo, professore che tra poco conoscerò: di chiamarmi per nome. E con nome non intendo necessariamente il nome di battesimo, ma anche il cognome: è indifferente. Non le chiedo di rivolgersi a me coi soprannomi o di fare l’“amicone” a scapito della sua serietà. L’importante è solo che lei non mi chiami usando perifrasi arzigogolate che interessano il colore della maglietta e la mia posizione nella classe. Chiamare le cose per nome è una delle prerogative dell’uomo. La prego, mi chiami per nome. Facciamo finta di conoscerci, di condividere qualcosa che non sia solo per lei il modo di prendere uno stipendio e per me quello di adempiere l’obbligo scolastico.
Impegniamoci a condividere un rapporto di crescita reciproca. Un rapporto che sia personale e bilanciato anche se, ovviamente, non paritario. Non ci può essere, per ovvi motivi, un rapporto simmetrico fra un insegnante ed uno studente, e cercarlo, sia da una parte che dall’altra, è forse un’utopia che può portare solo alla distruzione di questa relazione. Tuttavia spero che il suo “essere un passo avanti” si presenti sempre come un fatto di qualità, non d’autorità. Capita spesso che ci siano professori che, ai dubbi degli studenti, rispondono: “Ho ragione io perché sono io da questa parte della cattedra”. Come si fa a crescere con una risposta così? Non sarebbe stato meglio ragionarci insieme, spiegare ancora una volta la stessa cosa, pur di renderla chiara? Lo so: il tempo incalza e i programmi sono lunghi, ma bisognerebbe tenere sempre a mente che non sono i programmi l’obiettivo dell’Istituzione scolastica, ma le persone. E soprattutto le persone non straordinarie, quelle che ci mettono di più ad assimilare un concetto, le persone che forse non andranno mai all’Università o che non prenderanno mai un master, ma che vanno protette e ascoltate proprio forse perché questi anni sono gli unici in cui potranno avere qualcuno che li ascolti, qualcuno che sia lì per far vedere a loro quanto di bello c’è al mondo.
E poi è solo da questo tipo di rapporto che può nascere qualcosa. Qualcosa di nuovo, intendo, non una semplice ripetizione di vecchie date e bei versi, ma l’assimilazione di qualcosa di più profondo, che sia il sospiro di Dante e di tutti gli uomini davanti al passaggio di Beatrice o di qualche altra donna, o lo stupore di fronte a dei testi di psicologia che parlano anche di me.
Mi piacerebbe poi ricordare che io non sono un oggetto per il quale è quantificabile un valore. Un “prezzo” esprimibile in decimi che possa rendermi economicamente giustizia sul mercato del lavoro. Un voto è un punto di partenza, non una parte della mia ontologia. Un punto di partenza su cui lavorare e discutere, ma non un’etichetta definitiva del mio sapere su di un determinato argomento. È per questo che mi spaventa abbastanza l’introduzione del registro elettronico. Non rischia di divenire forse un altro muro in questa già difficile elaborazione di un risultato? Non rischia di essere lo strumento che estrania completamente la componente studentesca dal processo di apprendimento?
A questo riguardo le volevo chiedere anche di essere felice dei miei successi. Se prendo un buon voto non può essere una gioia solo mia, ma mi piacerebbe molto condividerla anche con lei. Credo che sia l’unico modo per non rendere il nostro anno scolastico una sfida tra me e lei, ma una scalata “sulle spalle dei giganti”. Una scalata in cordata con lei.
Una scalata che forse non mi servirà a nulla nella vita. E come quando si torna in pianura a poco servono gli insegnamenti della montagna, così, fuori da scuola, a poco serviranno gli argomenti studiati. Tuttavia scesi da una vetta, guardati nuovi ampi paesaggi non si è più gli stessi. Si è più adulti. La prego quindi di non ripetermi più la vecchia bugia che l’Infinito e le derivate mi serviranno “da adulto”. Forse sarebbe meglio e più onesto dire che mi serviranno “per diventare adulto”.
Alcune leggi giapponesi statuirono che d’innanzi all’imperatore i maestri erano gli unici a poter restare seduti. Ho avuto un professore che si alzava quando entravano i bidelli a portare le circolari. “È un gesto di rispetto ed accoglienza”, diceva. Da una storia ho potuto imparare l’importanza sociale dei maestri per la loro saggezza. Dall’altra in che cosa consiste questa loro saggezza. Ho avuto professori che non si sono mai lasciati sfuggire un sorriso in classe, ma che si vedeva che ci volevano bene esattamente come quelli che sapevano scherzare sulle formule chimiche.
Questi sono solo pochi dei tanti volti dei professori: tutti ugualmente belli e interessanti.
Non credo che si possa pensare di farne una classifica, di eleggerne uno o un atteggiamento migliore. Raggiungono tutti il loro obiettivo: segnano. Segnano nell’animo, seminano un campo ancora incolto di esperienze e tenuto a maggese da tanto tempo.
Ma ognuno alla fine sceglie i propri maestri, e in questo campo l’istituzione scolastica può fare poco, se non fare delle proposte, sperando che vengano accettate o prese come esempio. Sperando che il sorriso dell’intelligenza che si può scorgere sul viso di alcuni professori possa essere un punto di riferimento in un mondo in cui spesso domina il ghigno sadico del potente di turno.
Infine le esprimo solo un ultimo desiderio: se può, alla fine di ogni lezione, mi lasci almeno una domanda. Una domanda sola: che sia il nome di un autore o la formula di un composto. Le assicuro quella domanda è spesso più importante di tutte le risposte che può darmi durante una lezione, perché sarà il mezzo con il quale capirò che la vera scuola è ricerca. Che la vera scuola inizia fuori dalle mura di questa “nave senza nocchiere in gran tempesta”.
A presto
Articolo pubblicato dalla rivista "Scuola e formazione" nel settembre 2013